Boris era una serie molto italiana, ma non c’era niente di male

Senti Cristina, io sono molto stanco. Io ho quasi 50 anni e ho la casa mezza sfondata, questo non sarebbe grave però eh, la cosa grave è che qui a me mi stanno facendo fuori, hai capito? Io presto dovrò reinventarmi tutto e credimi che a 50 anni non è facile. Tu sei una ragazza giovane, tu prendi 200 mila euro per sei mesi di lavoro, quando c’è gente che per mille euro al mese sfonda le strade col martello pneumatico senza battere ciglio e lotta per vivere una vita di merda. Io penso che sarebbe bello per una volta vedere le cose nella giusta ottica, no? eh? E fare semplicemente il proprio dovere, senza capricci, senza problemi. In questo caso piangendo, se è il caso di piangere.

Hai finito d’attaccarmi la pippa Renè?

Boris è stato un fenomeno difficilmente spiegabile. Come molte cose che succedono nel nostro Paese non è stato parte di un movimento coerente ma un’incredibile eccezione. È stata una serie di qualità, per gli attori, per la regia, per la sceneggiatura: si è pienamente adeguata agli standard internazionali delle serie tv (che in realtà sarebbero venuti dopo) pur mantendendo dei contenuti molto italiani, italianissimi. Infatti, per quanto ben realizzata, Boris per essere fatta capire a un pubblico straniero avrebbe bisogno di un corso propedeutico di usi e costumi italiani, una sorta di Cura Ludovico, solo per avere i requisiti per apprezzarla davvero.

Intendiamoci, Boris parla di televisione e cinema, quindi prima di forzare troppo l’allegoria è giusto tenerlo a mente. Tuttavia riesce a fare magistralmente qualcos’altro: spiegare il nostro Paese. Non attaccandoci la pippa su tutto ciò che non va, ma raccontando le disfunzioni nostrane in maniera sottile e sussurrata, a volte con una semplice smorfia. Per dirla terra terra, Boris è come avere il C2 di una lingua straniera: lo so che la sai, quindi è inutile che ti spiego le basi della grammatica per comunicare. Passiamo direttamente ai dettagli. Lo spezzone trascritto qualche riga più sopra è esemplificativo di tutto ciò. In realtà è solo uno tra le centinaia che potrebbero essere presi e passati al setaccio alla ricerca di significati nascosti eppure, questo trasmette alla perfezione il livello di meta-italianità che la serie raggiunge. È una sorta di Stele di Rosetta per chi vuole davvero capire cosa significa essere molto italiani, sia negli aspetti folkloristicamente socio-politici ma anche, e soprattutto, nel sentimento che mettiamo nella nostra vita da mediterranei.

Senti Cristina, io sono molto stanco. Quando Renè inizia il suo discorso, la trasmette davvero, questa stanchezza. Inizialmente prende un respiro e fa una smorfia di impazienza mista a rancore. Poi però si rende conto che non ha la forza di arrabbiarsi e così, calcando la mano sul volto, si toglie metaforicamente la maschera, mettendo a nudo la sua vulnerabilità. È evidente che non si tratta di una stanchezza meramente fisica ma di fatica derivante da una frustrazione perenne, che lo accompagna ogni giorno sul set. La fatica di Sisifo, per intenderci: quella del reiterare uno sforzo disumano pur sapendo che non sfocerà in un successo. È probabilmente quella che lui prova lavorando come regista, il lavoro di uno che ha in mente un’idea che solo gli altri possono realizzargli.

Io ho quasi 50 anni e ho la casa mezza sfondata, questo non sarebbe grave però eh. Appena inizia il suo sfogo, Renè attinge alla sua vita personale, in una breve digressione che si dissolve quasi istantaneamente. In primis, solleva la questione dell’età, che in effetti è un incipit molto italiano quando si discute: di solito viene usata come artificio dialettico per sbattere in faccia all’interlocutore la propria esperienza; in questo caso, sembra più un voler corroborare la questione della stanchezza, che si sopporta sempre meno con l’incalzare degli anni. Poi cita un dettaglio apparentemente fuori luogo in quel momento, quello della sua casa-mezza-sfondata: sembra uno di quei pensieri che rimangono tra i processi in background nell’inconscio di qualcuno, così poco rilevanti per tutti tranne che per se stessi. D’altronde parliamo della casa, quasi certamente di proprietà, uno dei pilastri dell’identità nazionale. Poi però Renè interrompe bruscamente questo accenno di flusso di coscienza. Per chi non sarebbe grave, però? Per Cristina che lo ascolta, perché si rende conto di star condividendo frammenti della sua vita che così poco le interesserebbero, o è un promemoria per se stesso, perché si sta rendendo conto di divagare, anche se è ben conscio del fatto che nella scala delle priorità il suo problema più pressante è la casa e non i capricci degli attori?

La cosa grave è che qui a me mi stanno facendo fuori, hai capito? Nella maggior parte della serie, Renè oscilla tra la paura e il sollievo all’idea di perdere il lavoro. Tuttavia in quanto regista di fiction, il suo è più che un semplice lavoro: è anche una questione di politica. È quel “mi stanno facendo fuori” che preoccupa Renè, ancor più della casa mezza sfondata. È forse la prospettiva di essere sollevato dal suo incarico senza averlo potuto fare prima lui, di sua iniziativa. Il togliergli la soddisfazione di liberarsi di una cosa che in fondo odia, ma che deve fare costretto da non si capisce bene chi o cosa: se dal bisogno di soldi, dal senso del dovere (il lavoro visto come una cosa da fare anche se non ci piace, altra cosa molto italiana) o da un sadico piacere di girare la monnezza, come la chiama lui.

Io presto dovrò reinventarmi tutto e credimi che a 50 anni non è facile. A volte un talento – o un’opportunità – è una condanna. Renè gode della stima di molti degli addetti ai lavori, per quanto nei suoi scorci di biografia si citino solo cose di cui si vergogna di aver girato. A Renè piace il set, come a un atleta piace l’odore del campo in cui entra durante la partita. Probabilmente è questo ciò che accomuna tutti: si inizia col fare una cosa che si ama e si finisce per odiarla, a forza di seppellire la passione sotto una valanga di compromessi. Renè sa che per quanto se ne lamenti, stare sul set è la cosa che gli riesce meglio. Mettersi a fare qualcos’altro non rappresenta una nuova prospettiva ma un salto nell’ignoto. Cambiare lavoro a volte spaventa più che perderlo.

Tu sei una ragazza giovane, tu prendi 200 mila euro per sei mesi di lavoro, quando c’è gente che per mille euro al mese sfonda le strade col martello pneumatico senza battere ciglio… A questo punto Renè si rivolge finalmente a Cristina e si arriva al cuore del discorso. Vuole farle pesare tutta una serie di cose: che è giovane, quindi per definizione fortunata e senza problemi agli occhi di qualcuno non più giovane, e che è privilegiata, per quello che prende in virtù del poco che fa. Renè è consapevole che fa parte del gioco, ma forse non si capacita ancora del perché le persone con cui ha a che fare prendano più di lui faticando molto meno. Per quanto classico sia questo pattern (c’è sempre qualcuno che si fa il mazzo più di noi, e bisogna compatirlo) nel tono di Renè non c’è volontà di umiliare, ma una disinteressata intenzione di istruire. L’esempio di chi fa lavori di fatica prendendo una paga misera è un clichè, certo, eppure risulta particolarmente efficace considerando il contesto – d’altronde Renè non sembra dirlo come frase di circostanza, ma con la consapevolezza di uno che, magari in gioventù, ha davvero fatto lavori umili prima di avere successo. È in questo momento che Cristina dimostra già cosa pensa di questa conversazione. Quando alza gli occhi al cielo, non li abbassa con il fare di qualcuno che ha incassato la parternale e ne farà tesoro, ma con l’impazienza di chi ha deciso di non ascoltarti fin dal principio.

…e lotta per vivere una vita di merda. Renè conclude così il suo pensiero sui privilegi e chi non ne ha. Lo fa con un’uscita di getto, che però spiazza per il suo pathos. Lottare per vivere (comunque) una vita di merda. Nell’ideale di lotta che abbiamo, gli sforzi profusi, nel lavoro, nello studio, nella vita, non sono mai vani, perché la fatica di oggi è il successo di domani. E invece no, perché non sempre sforzandosi si raggiunge l’ottimo. Queste poche parole messe in quest’ordine aprono un universo, sul nostro Paese e sulla vita in generale: dal dibattito sulla decennale scarsa produttività nazionale, all’etica del lavoro di matrice cattolica, che sembra finalizzata quasi esclusivamente a martoriare il proprio corpo senza possibilità alcuna di emancipazione. E questa frase riesce a fartela davvero immaginare, questa lotta: la senti, te la immagini come una lunga giornata che termina accasciandosi sul divano, sul quale ti assopisci in cinque minuti dopo aver acceso la televisione. Una giornata non rilevante, che ha il solo pregio di essere finita.

Io penso che sarebbe bello per una volta vedere le cose nella giusta ottica, no? eh? Quel “no? eh?” conclude tutta la riflessione di Renè tramutandosi quasi in supplica. È la speranza di aver fatto capire il proprio punto di vista a qualcuno, con così poche parole – perché alla fine le parole sono sempre poche. Ma è anche un tentativo disperato. Quante volte ci proviamo a metterle nella giusta ottica, le cose? Quante volte proviamo a farlo capire agli attori, ai calciatori, ai politici? Però ci viene anche un dubbio lecito: ma esiste un’ottica (ed è fisicamente un’ottica?, semicit.) e per di più giusta? Per chi? Forse non è chiara perché nessuno parla mai dell’ottica di chi li prende, questi 200 mila euro in sei mesi, visto che sarebbe un punto di vista un po’ impopolare. Infatti Cristina non vede cosa dovrebbe fare di diverso e di sicuro non vede perché dovrebbe impietosirsi.

E fare semplicemente il proprio dovere, senza capricci, senza problemi. Una delle poche volte che Renè è felice, così tanto da sorprendersi, è quando l’attrice che fa il ruolo della magistrata si comporta semplicemente da professionista, recitando come da copione. Come regista, si trova quasi sempre solo nel mare in tempesta e il suo principale compito è quello di chiedere a chi gli sta intorno di fare il proprio lavoro, senza neanche pretendere di farlo bene. Eppure quello di Renè è anche un desiderio, per quanto lecito, fin troppo naïf. Tutti vorremmo ottenere le cose che vogliamo senza ricevere una reazione uguale e contraria da parte di chi ne vuole altre, spesso in antitesi alle nostre. In un contesto più drammatico, ricorda il Sindaco di Los Angeles durante la tragica rivolta del 1992: can’t we all get along? Un tentativo così ingenuo e disperato al quale però facciamo fatica a dare torto.

In questo caso piangendo, se è il caso di piangere. Renè torna al pomo della discordia: Cristina non voleva piangere nella scena che stava girando. Eppure, alla luce di quanto detto prima, forse non è più una questione di recitazione. Forse quello che non riesce a far piangere Cristina è il non averne mai avuto bisogno, mentre Renè scoppierebbe proprio mentre finisce di parlare, per la stanchezza e la frustrazione, e per questo non si capacita di cosa ci sia di così difficile nel farlo.

Hai finito d’attaccarmi la pippa Renè? In realtà era chiaro che questa cosa Cristina la stesse già pensando dall’inizio della conversazione. Renè ha parlato a cuore aperto ma sollevando temi di scarsissimo interesse per una nella posizione di Cristina. In quel momento, spiazzato da tanta sfacciataggine, Renè le dà uno schiaffo. La scena rende alla perfezione il valore di quel gesto: la violenza come mancanza di alternativa alle parole, un bisogno di contatto fisico in sostituzione di un ponte verbale che non è stato possibile erigere – ti meno perché almeno senti (sentirmi inteso come ascoltare ma anche come percepire), legittimo con la violenza la mia presenza ai tuoi occhi. È uno schiaffo punitivo, quasi genitoriale, che sanziona un’impertinenza ingiustificabile. Ma per assurdo è solo un ulteriore, vano tentativo: Cristina reagisce con gli interessi, rispedendo al mittente anche quest’ultima prova di stabilire un contatto. Insomma, tutto ciò non è servito a niente.

Matthew Perry era un Bojack Horseman buono

Era esattemente un anno fa quando lessi questo articolo su Matthew Perry rimanendo turbato, perché mi resi conto che anche dietro la spensieratezza di Friends aleggiava lo spettro della sofferenza umana. In realtà c’era poco da esserne scioccati: come succede nella vita di chiunque, e i personaggi famosi non ne sono esenti ma anzi, a volte ci si trova a combattere contro i propri demoni. E a volte non ci è concesso sconfiggerli. Eppure, stamattina, quando ho letto la notizia della sua scomparsa non ho potuto fare a meno di sussurrare allo schermo che mi stava di fronte “ma che cazzo dici?”. Tra l’altro, Friends avevo cominciato a rivederlo proprio in questi ultimi giorni.

Il senso di lutto diffuso che causa la scomparsa un personaggio famoso può essere spiegato al di là del moto di empatia che incosciamente proviamo perché quella persona credevamo di “averla conosciuta”: quando ci lascia qualcuno come Matthew Perry, il ricordo condiviso di ciò che rappresentava – in questo caso gli anni novanta o semplicemente una serie che ci metteva di buon umore – assume contorni diversi, generando un miscuglio di nostalgia e inquietudine. Nostalgia perché ricordiamo il passato, inquietudine perché di quel passato ci rendiamo conto che stanno scomparendo le tracce.

Ancora più strano è lo scoprire che, per quella persona, gli stessi momenti che noi abbiamo consumato per ottenere i nostri futuri-ricordi piacevoli sono coincisi, per essa, con l’inizio di una forma di sofferenza derivante proprio dal suo nuovo status di personaggio famoso. Difficile dire se gli autori si fossero ispirati alla sua vicenda eppure quando, sempre poco tempo fa, ho rivisto Bojack Horseman mi sono convinto che la sua storia fosse incredibilmente simile a quella di Perry, dopo averla conosciuta da quell’articolo: l’alcolismo, l’abuso di farmaci, la depressione, la paura di non piacere più, tutti problemi di qualcuno che doveva la sua fama a una serie che parlava di qualsiasi cosa eccetto che dei problemi della vita, a cui Horsin’ Around in effetti fa il verso*. In realtà è più probabile che dietro tutto ciò ci sia solamente una matrice comune e che sia il mondo dell’intrattenimento in sé ad essere portatore sano del fenomeno. Fa solamente più male quando si associa il dramma dell’esistenza ai prodotti cultural-pop più semplici e innocui, in cui pretendiamo che gli attori che interpretano quei ruoli siano davvero felici e spensierati anche fuori dal set, possibilmente per sempre.

Quando recentemente ho finito di rivedere Bojack Horseman a qualche anno di distanza dalla prima volta, ho provato a dedicargli un post: ho adorato la serie, e il rewatch me l’ha confermato, ma ci trovavo un difetto di fondo. Volevo dare sostanza alla tesi che storie come quella di Bojack in realtà non ci avvicinano affatto alle persone famose solo perché ci raccontano che, anche loro, soffrono: pur correndo il rischio di fare una discriminazione di classe al contrario – visto che sei ricco non venirmi a raccontare che sei depresso, tu almeno sei ricco -, bisogna comunque fare attenzione nello scegliere a chi dedicare la nostra limitata scorta di empatia. D’altronde, si può anche essere depressi e stronzi, oppure essere infelici a causa del proprio essere stronzi, e nel caso di Bojack ci si avvicina proprio a entrambe le conclusioni – ed è difficile capire se è la serie stessa a voler farci andare verso questa direzione. Ed è per questa ragione che non sono riuscito a costruirci sopra una critica convincente. Non ci sarà dato sapere com’era davvero il Matthew Perry uomo, ma la piega drammatica che prese la sua vita fu così prematura e così pervasiva che viene spontaneo un senso di simpatia, come se ci fosse qualcosa che lo facesse sembrare una persona buona proprio come lo era quando interpretava Chandler Bing.

L’ultima scena di Friends ha una potenza davvero micidiale per la sua significativa semplicità. A chi dovesse avventurarsi in questo blog consiglio di non vederla senza aver visto (o rivisto) tutta insieme l’intera serie. Nel momento in cui Chandler [INIZIO SPOILER] rimane l’ultimo del gruppo a dire l’ultima battuta prima di uscire da quella casa/set parte Embryonic Journey dei Jefferson Airplane, mentre la telecamera ci fa una lenta panoramica dell’appartamento ormai vuoto. Una scelta di regia che colpisce, sia per il fatto che raramente in Friends si sentono brani originali famosi, che per aver scelto una canzone così unica, mistica e senza testo**. Non c’era modo migliore di concludere una serie che raccontava la quotidianità se non quello di inserire un grande cambiamento. Quella scena descrive in realtà un momento che capita a tutti di provare nella nostra vita ma che solo in poche occasioni abbiamo l’opportunità di vivere lucidamente: il momento in cui sappiamo che quella, proprio quella, sarà l’ultima volta in cui salutiamo qualcuno.

*In Bojack, c’è un arco narrativo in cui uno dei personaggi secondari di Horsin’ Around vuole fare uno spin-off con lui protagonista a anni di distanza dall’ultimo episodio. Successe quasi esattamente la stessa cosa con Joey di Friends.

**Perry dirà in seguito che mentre tutti si commossero alla fine delle riprese, lui non provò nulla, e non potè dire se fosse a causa degli oppiacei che assumeva all’epoca o del fatto che si sentisse già a quel punto “morto dentro”.

Il Natale è l’unica cosa capitalista che si fa voler bene

Pur dicendolo con molta cautela, questo Natale sembra, e dico sembra, essere un Natale di ritorno alla normalità*. Oddio, definiamo normalità: la pandemia ha abbassato di netto la soglia di ciò che prima consideravamo normale. Quindi, già un fine anno senza bollettini allarmanti di contagi, vaccini e tamponi ci va più che bene. Poi c’è la guerra, l’inflazione, il riscaldamento climatico, ma prendiamoci una pausa, ci penseremo dopo le feste.

Tornando a vivere il Natale “come si faceva una volta” ho pensato al significato, rigorosamente pagano, di questa tradizione di cui ho sempre subito il fascino. Probabilmente c’è un mix di fattori. D’altronde è un periodo che coincide con le vacanze da scuola, le ferie dal lavoro, la nostalgia di quando si era bambini, le luminarie per strada, la malinconia di un anno che giunge al termine, il freddo e il tepore di casa quando si rientra dopo una lunga giornata fuori.

Una volta mi è stato chiesto perché mi piacesse così tanto il Natale e mi è venuto di getto replicare, senza pensarci troppo, “per il consumismo”. Devo dire che mi sono vergognato un po’ di questa riposta, però ho anche pensato si potesse fare un tentativo per contestualizzarla. Partiamo dalle basi. Cos’è il Natale da un punto di vista laico? Come si collega la tradizione religiosa cristiana della natività con l’abitudine di decorare un albero risalente forse ai tempi dei Celti o dei Vichinghi, e con un pasciuto uomo vestito di rosso che entra nei camini di tutto il mondo per lasciare doni, la cui immagine così come la conosciamo oggi venne popolarizzata dalle prime pubblicità di un secolo fa? Non è una novità nella storia umana costruire credenze o tradizioni sulla base di elementi decontestualizzati presi in prestito da altre culture, soppiantate da quella dominante negli infiniti cicli che attraversano le civilità. Il Natale moderno non ne è nient’altro che l’ennesimo esempio. La storia dell’essere tutti più buoni per ottenere doni, per quanto pigra possa sembrare, è in realtà una costante in tutto il folklore proto-natalizio.

Con questa litania moraleggiante sulla bontà e sullo spirito del Natale sono stati fatti i migliori film (o episodi di serie TV) a tema Natalizio, in particolare quelli di matrice americana, visto che negli Stati Uniti, patria dell’esagerazione, anche il Natale lo si vive sempre in grande stile. Infatti non c’è trama più scontata di quella di un film natalizio: persino nel Grinch, forse il tentativo più originale di descrivere il Natale, alla fine tutti finiscono col volersi bene. Ma il fatto è che ci sta. C’è da dire che, ogni tanto, questo modo melenso e stucchevole con cui si coltiva l’illusione che le cose andranno bene solo perché è Natale – perché a Natale non succede mai niente di male, è risaputo – è confortevole. Forse è davvero un tentativo, totalmente arbitrario, di prendersi una pausa dal malassere del mondo e accettare con più sportività lo scorrere del tempo, convenzionalmente fissato al 31 di ogni dicembre, dilatandolo oltremodo con pasti luculliani e socializzazioni più o meno forzate.

Così, tornando al consumismo, accettare di vivere secondo il manuale del Natale per poterne godere dei simbolici frutti richiede come corollario l’accettazione del proprio status di consumatore. Si acquistano decorazioni, maglioni e regali, ovviamente; si ascolta la musica, si guardano i film e gli spettacoli a tema; si va a sciare o alla ricerca del migliore mercatino. È il kit essenziale per aderire alla tradizione. E per questo è un consumismo buono, un accostamento che lascia perplessi come quando lo si diceva di Papa Wojtyla, il Papa buono.

Vi ho convinti? Sono sicuro di no. Ma perché continuare a versare inchiostro virtuale quando c’è stato qualcuno che è riuscito a far capire il Natale meglio di tutti in soli 4.38 minuti?

Aggiornamento del 22 dicembre:

Non so se essere preoccupato o affascinato dal fatto che qualcun’altro si faccia i miei stessi problemi su certi argomenti.

* Poco dopo aver scritto quest’articolo mi presi il covid.

Vaporwave è un tentativo di psicanalizzare la nostra società

Si è parlato di chillwave e di synthwave, con le loro svariate declinazioni, in questo blog. Tuttavia avevo omesso un’altra nicchia della cybercultura musicale che ho riscoperto casualmente questi giorni. V A P O R W A V E, musicalmente, riprende alcuni degli stessi contenuti dei brani della chill/synthwave. Eppure ciò che colpisce maggiormente è l’estetica, a partire dalla scelta di caratteri dei titoli dei pezzi: lo spazio tra una lettera e l’altra, il grassetto insieme al maiusc, alle volte la presenza dei simboli di tastiera meno utilizzati o ideogrammi asiatici, seguiti da numeri, tutti elementi che sembrano randomici.

Le scelte visuali dei pezzi vaporwave, sebbene probabilmente casuali nei dettagli, sono coerenti a un canone estetico – o AESTHETICS – comune a tutti gli artisti. Tra gli elementi che compaiono nell’immagine statica dei video di YouTube in cui troviamo questi brani c’è una commistione retrofuturista che unisce elementi di cultura pop-consumista in particolare degli anni ottanta e novanta, tecnologia ormai superata (monitor CRT, CD) ed elementi posticci del mondo classico greco-romano, come busti o sculture che sembrano più di plastica che granito. Il tutto appoggiato su di uno sfondo lisergico, spesso colorato con tonalità nebbiose e innaturali di colori sgargianti, come l’arancione o il viola, che lasciano intendere l’esistenza di un mondo virtuale – una specie di metaverso ante litteram – in cui tempo e spazio si confondono. Nella musica, le “lyrics” di questi video possono essere jingle pubblicitari destrutturati, rallentati e timbricamente alterati, che sembrano eco di interferenze captate dallo spazio profondo.

La particolarità di questi video è che lo shock da nonsense è così forte che in qualche modo riesce a suscitare emozioni inaspettate e lancinanti, soggettive a seconda di chi le sperimenta. Tra l’altro, caratteristica comune a tutte le altre ramificazioni della “wave”, questo genere musicale non avrebbe lo stesso significato se ascoltato fuori da YouTube, cioè senza la componente visiva. Per quanto ossimorico possa sembrare, questo è un genere di musica che, per essere apprezzato, deve essere visto oltre che ascoltato.

La stessa denominazione, vapor, è emblematica dell’inconsistenza di questo coacervo di caratteristiche che, non essendo legate da un significato apparentemente univoco, sembrano manifestazioni oniriche, evanescenti, che danno la sensazione che ciò che si è visto o ascoltato sia stato frutto di un sogno lucido. Inoltre, lascia intendere anche il carattere allucinogeno di questi video, i cui “vapori” (anche quelli emanati dalla sbornia consumista della nostra epoca) ci lasciano inebriati. Il fatto che il consumismo rappresentato sia quello più vintage, lascia un alone di nostalgica autoassoluzione, come se i prodotti di qualche decennio fa fossero più innocenti e innocui, forse perché consumati senza il senso di colpa che attanaglia il nostro presente, dove consumismo e capitalismo fanno rima con crisi economiche, diseguaglianze e disastri ambientali.

Tuttavia il tema portante della Vaporwave rimane la nostalgia o meglio, una sua rappresentazione incredibilmente fedele rispetto a come viene generata dalla nostra mente. D’altronde, la nostalgia è la dialisi del nostro passato: tutto ciò che ricordiamo, anche periodi non necessariamente felici, assume dei connotati positivi solo perché rappresenta qualcosa che c’era e non c’è più. La stessa Tassoni “vaporizzata” nel video sopra, una bevanda che tutti conoscono ma che pochi hanno assaggiato, diventa un elemento che manca nel nostro presente solo perché esisteva in potenza, non perché fosse effettivamente importante berla; era confortevole che esistesse perché faceva parte del nostro quadro composto di certezze. La Tassoni, come il Maurizio Costanzo Show, erano cose così martellanti e onnipresenti all’epoca che la loro subdola ed improvvisa sparizione ci lascia atteriti*. Eppure il fatto che vengano riesumate e riproposte in questa chiave aiuta ad elaborare il lutto della loro dipartita tracciando una linea di continuità con il passato della nostra società, come quando si guarda le foto di noi da bambini chiedendosi: com’è possibile che una cosa così diversa rispetto alla sua forma attuale sia esistita per davvero?

La pagina di Wikipedia inerente alla Vaporwave, accenna a una sua interpretazione in chiave anticapitalista addirittura ricercando la sua origine in un passo del Capitale di Marx, cosa che sembra non tornare (o quantomeno essere fraintesa), visti i sospiri che suscita nei commenti degli utenti di YouTube. Più convincente è il riferimento al tentativo di creazione di un linguaggio universale, in cui immagini e suoni diventano messaggi facilmente decifrabili da tutti perché in fondo trasmettono emozioni che non devono essere necessariamente capite, ma solo provate. Infatti, sembra riduttivo attribuire un esclusivo fine di critica sociale ad un qualcosa che tenta, forse incosciamente, di dare sfogo a sentimenti di cui ancora fatichiamo a trovare delle definizioni; una sorta di lallazione a seguito della quale, forse un giorno, troveremo le parole che cerchiamo.

* Che poi precisiamo: non è che entrambe le cose sia proprio sparite. La cedrata Tassoni è ancora in commercio, mentre il Maurizio Costanzo Show è andato in onda fino al 2022. La questione non era tanto la loro mera esistenza, ma la loro rilevanza.

Stranger Things è solo un prodotto della nostalgia?

Finito di guardare la quarta stagione di Stranger Things la prima cosa che ho pensato è che questo show ha raggiunto un livello di qualità tale che la prossima stagione, quella conclusiva, rischia di non essere all’altezza delle aspettative. Questo per dire quanto questa serie mi abbia appassionato – e non sono di sicuro l’unico a pensarlo -, quindi preciso che questo non sarà un post di critica cinematografica. Tuttavia c’è stata una sensazione, quasi un rumore di fondo, che mi ha accompagnato fin dalla sua messa in onda su Netflix. La sensazione che i riferimenti culturali agli anni ottanta, il periodo in cui si è scelto di ambientarla, siano stati così forzati da risultare un po’ stucchevoli. Vedendo questo video che ne parla in relazione alla nostalgia (sicuramente quella degli autori, che hanno vissuto la loro giovinezza in quel periodo) ho trovato una conferma alle mie ipotesi.

Stranger Things ricalca alla perfezione il tipo di prodotto classico del cinema anni ottanta. Per quanto la trama sia indubbiamente originale nei contenuti, la semplicità quasi pigra di raccontare la storia (di fatto l’ennesimo scontro del bene contro il male, male che però è assoluto ed inconoscibile, quindi non passabile di salvezza o analisi: col demogorgone non ci puoi ragionare, e coi russi-comunisti nemmeno) è esattamente nello stile della cultura del periodo. C’è da dire che nella quarta stagione si arriva ad una maturità diversa, visto che forse (interpretazione mia e SPOILER) Vecna diventa un’allegoria del trauma e del senso di colpa che alcuni personaggi fanno fatica ad elaborare e che, incancrenendosi, si manifesta assumendo fattezze mostruose (metafora della sofferenza psicologica).

Più in generale, i riferimenti all’epoca sono sicuramente indispensabili per dare un contesto ma alle volte sembrano essere buttati nelle scene solo perché “fanno figo”. Un po’ come (SPOILER) la scena in cui Eddie suona i Metallica per attrarre i pipistrelli del sottosopra, che ha il duplice compito di dare epicità alla scena attingendo al tempo stesso a uno dei prodotti culturali di successo degli anni ’80, cioè la musica metal. Oppure la canzone, ricorrente per tutta la stagione, “Running up that hill” di Katie Bush che in effetti ha sortito proprio l’effetto di un revival nel presente.

Ora, queste critiche lasciano il tempo che trovano, perché è ovvio che nel cinema si forza un po’ la mano sulle storie per conferirgli il più alto grado di coinvolgimento possibile. Però viene da chiedersi, come capita da queste parti, quanto sia sano riattingere a fenomeni culturali del passato facendone dei veri e propri “remake nelle intenzioni” e non una fonte di ispirazione. Per intenderci, anche se i film dell’epoca avevano gli stessi vizi che alle volte sconfinavano un po’ in un trash ante litteram (ne cito un paio per dare l’idea: Grosso guaio a Chinatown e Highlander), vederli oggi è comunque un’esperienza piacevole perché si può respirare davvero l’atmosfera di quei tempi visto che, giocoforza, ne erano il frutto diretto. Tra l’altro, i film che ho citato a me sono piaciuti un sacco pur trasudando di tutta quell’ingenuità magica che solo quel decennio sapeva offrire.

Insomma, mettendola un po’ terra terra, verrebbe da chiedersi perché preferire la copia all’originale. O meglio, perché la storia di Stranger Things non poteva essere ambientata ai giorni nostri? Che valore aggiunto le conferisce l’essere ambientata negli anni ’80? Ovvio che si tratta di tutte domande retoriche, che però celano quella sensazione di non riuscire a schiodarsi da un passato che assume delle connotazioni positive per definizione. D’altronde la tranquillità che offre la nostalgia è il miglior rimedio ad un presente un po’ troppo movimentato.

È finito il mondo e non ce ne siamo accorti?

Ho appena finito di vedere il mini-documentario “Trainwreck: Woodstock ’99” su Netflix. Passando sopra a quell’approccio fastidioso che hanno gli americani nel girare documentari – lo paragono all’abitudine che hanno di mettere sull’insalata un sacco di cose oltre all’olio, il sale e l’aceto: il voler sovraccaricare qualcosa che li annoia per la sua intrinseca semplicità -, lo consiglio davvero per i filmati di repertorio. In pratica, nei tre episodi si parla di come andò l’edizione di Woodstock a trent’anni da quel Woodstock, l’originale. E andò parecchio male.

In qualche modo fu la fine di un’epoca. Era pur sempre la fine del millennio e com’è naturale che fosse – o che si sarebbe rivelato essere – tante cose stavano per finire. In quell’ambito lì, di Woodstock, a finire era la musica, avrebbero detto alcuni, o l’idea di comunitarismo degli anni ’60, quando si credeva (e forse ci si riuscì, seppur per poco) che si era diventati, come individui, abbastanza saggi da autogestirsi senza il bisogno che lo imponesse l’autorità. D’altronde, Woodstock del 1999 fu anch’esso una manifestazione di anarchia ma di segno opposto. Non fu l’emancipazione dall’autorità ma la primitiva voglia di annientarla. E non essendo questa violenza sostenuta da un ideale finì con lo sfogarsi sugli stessi partecipanti, con conseguenze indicibili.

Facendo uno dei soliti voli pindarici che mi capita fare in questo blog – insomma, la parte per il tutto -, questo documentario mi ha fatto riflettere su come il nostro declino – nostro di chi? dell’occidente, del mondo? il mondo è occidente? – sia stato lento ma inevitabile. Mi viene in mente la storia della rana messa a bollire nella pentola: il fuoco era così basso che era difficile accorgersi quanto scottava. Quello che sta succedendo da due anni a questa parte, dalla pandemia, alla guerra in Ucraina, alla possibile – ma speriamo di no – Terza guerra mondiale tra Usa e Cina, a Chiellini che ferma la palla con le mani, sembra proprio la fine dei tempi. Ecco, non la fine del mondo, che tutti ci immaginiamo col meteorite o con la bomba. Ma proprio la fine dei nostri tempi. Di quello che siamo abituati a fare e a pensare in un certo modo.

Mi chiedo come si sentirono le persone al tempo della fine dell’Impero romano. Anche in quel caso, non si trattò di fine del mondo ma di fine di un mondo, quello dei romani. E penso che poi, dopo qualche secolo di assestamento, alla fine si creò un equilibrio grosso modo rimasto inalterato fino ai giorni nostri. Dall’anno 1000 fino al 1999 non ci furono sconvolgimenti di portata simile alle invasioni barbariche e anche le due guerre mondiali, per quanto atroci, non minarono le fondamenta del sistema. Per intenderci, gli Stati rimasero tutti più o meno in piedi: per un tedesco o per un italiano, un francese, un inglese, le cose sarebbe continuate ad essere secondo una prospettiva piuttosto simile a quella di prima della guerra. Solo che adesso le forze ostili non sono soltanto esogene, ma anche endogene. Woodstock ’99 è potenzialmente ovunque, come un virus latente. È la ruggine della società che corrode dall’interno le sue stessa fondamenta. E visto che stanno mancando i trattamenti adeguati per tenerla a bada – il benessere, la sicurezza, la speranza – tutta la struttura rischia di crollare. E anche volendo fare i difensori dello status quo, diventa sempre più difficile giustificare un sistema che necessita di cambiamenti che sono stati negati per troppo tempo: vuoi che siano interni, nel modo in cui funziona la democrazia, o esterni, negli equilibri di potere del sistema internazionale.

Ma chi si batterà per un mondo che è già finito?

Forse bisognerebbe invidiare i boomer

Era solo una questione di tempo prima che i boomer venissero memizzati. E così è successo diciamo dal 2019, secondo le statistiche di Google.

Google Trends

Intendiamoci, internet mastica concetti già esistenti e li risputa sotto forme appartentemente nuove, infatti tutti sanno che “boomer” deriva da “baby-boomer” ossia una categoria demografica che indica i nati dal dopo-guerra fino ai primi anni ’60, che hanno goduto dei dividendi della pace e della ripresa economica della seconda metà del ‘900. Penso che un momento di svolta per la popolarità del concetto sia stato quando una parlamentare neozelandese millennial abbia risposto ad un boomer scettico sul cambiamento climatico liquidandolo con, appunto, un “Ok boomer“.

Da allora c’è stata una freccia in più, nella nostra piuttosto scarna faretra generazionale, per esprimere efficacemente il disagio che proviamo per la generazione dei nostri genitori, ritenuti colpevoli di aver scatenato la crisi climatica, quella economica e le cavallette.

Per assonanza però, internet ha creato un concetto innovativo, in netto contrasto con la faciloneria e il carpe diem consumistico del boomer. Si tratta del doomer.

La personificazione del doomer è abbastanza eloquente. Le occhiaie, la sigaretta, il cappello scuro, la barba sfatta, lo sguardo perso nel vuoto. Il doomer è l’essenza della rassegnazione. Pensa che ogni azione che farà nella sua vita sarà inutile per rendere le cose migliori, in primis per se stesso. Viene schiacciato dal peso di un mondo che sembra fuori controllo – lo è stato mai in controllo? – e ogni battaglia, politica, sociale, ambientalista, gli sembra troppo vana da combattere. Il doomer non è un personaggio necessariamente negativo. Probabilmente non odia il mondo, solo che ne è profondamente deluso. Si rinchiude in una solitudine esistenziale senza avere, o cercare di ottenere, una risposta risolutiva alle sue angosce.

Ora, dire che il doomer sia un’interpretazione universale della generazione Y e Z è un’esagerazione. Eppure qualcosa di verosimigliante esiste. Anzi, vista la situazione direi che sia un mezzo miracolo che non siamo diventati tutti dei doomer. Ma date le circostanze mi sono chiesto, dovremmo forse invidiarli, i boomer?

Pensiamoci. I boomer hanno goduto di tutte le meraviglie della società moderna. Una in particolare: la fiducia nel futuro. E per fiducia nel futuro intendo un futuro molto prossimo, vicino al presente. Il futuro della cicala, insomma. Ed è stata una rivoluzione sociale: non far parte della società in qualità di ingranaggio che funziona per un bene supremo, ma un bene supremo, la società, che funziona per il benessere dell’individuo. Questo passaggio dal comunitarismo all’individualismo (che ha avuto il suo apice negli anni ’80) è stato copernicano ed ha avuto come conseguenza una forte miopia nel considerare le proprie azioni come non foriere di conseguenze per il prossimo (vedi crisi ambientale). Però, chiediamoci, al loro posto che cosa avremmo fatto? Ovvio che anche allora esistevano sensibilità altrettanto sofisticate delle nostre (la scusa di ritenere i nostri precursori come ingenui non regge) – e il discorso del presidente Carter sul malessere della società è un esempio tremendamente attuale – ma in qualche modo si pensava che, come nei migliori film di Hollywood del tempo, l’umanità avrebbe trovato il suo eroe che avrebbe salvato la giornata.

È ovvio che da un punto di vista evolutivo questo approccio non potrebbe funzionare, non più. Il vero progresso consisterà nell’essere razionalmente ottimisti, quindi aspettandosi che le cose potrebbero andare male pur avendo fatto tutto nella maniera giusta, piuttosto che tornare ingenuamente ottimisti, aspettandosi che le cose potrebbero andare bene pur facendo tutto male.

Però diamine, quanto sarebbero stati belli i nostri anni ’80.

Cronache (sbagliate) di guerra p. II

C’è un personaggio salito di recente agli onori della cronaca che mi dà un ottimo aggancio per continuare il mio ragionamento. Recentemente è stato ospite di alcuni talk show un professore universitario della LUISS che ha suscitato scalpore per le sue posizioni controverse sulla guerra in Ucraina. In seguito alle critiche ricevute, Orsini si è visto annullare il suo contratto da ospite con la RAI. Come spesso accade nei dibattiti italiani, Orsini ha ricoperto il ruolo del classico personaggio che compare dal nulla diventando apparentemente l’unico interlocutore autorevole sull’argomento più dibattuto di quel determinato momento storico. D’altronde, pur essendo professore universitario, verrebbe da dire che non è il solo in tutta Italia ad occuparsi di relazioni internazionali.

Ancor prima di scoprire del suo allontanamento dalla RAI, ero finito anch’io nel loop degli interventi di Orsini tramite gli spezzoni caricati su YouTube dal canale di La7. Dico loop, perché il personaggio ha davvero un qualcosa di ipnotico nella sua assurdità: Orsini è drammatico nel modo di esporre, parla usando immagini che fanno leva su di un’emotività di bassa lega (i Paesi di cui parla non sono invasi ma “sventrati”, fa riferimenti così ossessivi ai bambini morti duranti i conflitti che finiscono per suscitare più ribrezzo che commozione) e ha un fare da profeta che a tratti è così grottesco da risultare comico. Orsini ogni volta che è ospite di qualche talk show dice che quelli come lui non hanno spazio nel dibattito pubblico perché dicono cose troppo scomode e prima di ogni suo intervento deve fare premesse esasperanti perché altrimenti l’indomani “lo linciano”. Eppure puntualmente lo si ritrova sempre lì, la puntata seguente. In realtà il canovaccio seguito da Orsini non è molto difforme da quello canonico che molti ospiti dei talk show italiani rispettano: c’è sempre qualcuno che si intesta il ruolo di combattente del “pensiero unico”, che si scaglia contro una fantomatica censura perché quello che dice non si uniforma adeguatamente al mainstream. La cosa che colpisce di Orsini è la sua capacità di esasperare questo atteggiamento, riuscendo a trascinare in questo assurdo vortice anche gli altri ospiti, spesso facendoli sembrare più inadeguati di lui.

Il fatto che Orsini sia stato “licenziato” (ma solo dalla RAI, si intenda) fa sorgere la questione di quale sia il modo migliore di affrontare personaggi del suo calibro quando si è alle prese con dibattiti così divisivi. Da un lato, così facendo, allora la sua profezia del bavaglio si è autoavverata. Dall’altro, continuando a tollerare la sua presenza, si sarebbe continuato a dare spazio a un personaggio totalmente non informativo, per non dire dannoso. Ma il problema probabilmente è a monte. Orsini era la persona giusta da invitare in televisione? Nessuno ci ha parlato prima per capire cosa – e in che termini – pensasse? Queste sono domande retoriche, perché alla fine il fatto che ci sia la parola show in talk show la dice lunga sul tipo di dinamiche che si vogliono instaurare durante queste trasmissioni. D’altronde, le polemiche e le controversie fanno bene agli ascolti. Però fino a che punto tirare la corda? Quant’è etico continuare a battere questa strada quando si parla di cose serie come la guerra o, fino a poco fa, di una pandemia?

Il parossismo che si raggiunge in questo spezzone è da brividi

L’altro aspetto da considerare è come gli altri ospiti si trovino a gestire personaggi come Orsini. Durante il suo picco di inviti su La7, Orsini si è confrontato con giornalisti, diplomatici, ricercatori, quasi tutti di buona fama e dal solido curriculum. Eppure nessuno è sembrato realmente in grado di saperlo arginare. Nathalie Tocci, direttrice dello IAI, a un certo punto sbotta contro Orsini dicendogli che non può parlare di Ucraina visto che non c’è mai stato. Quando lui le replica che ragionando sulla stessa falsariga allora nessuno in studio potrebbe parlare della Seconda Guerra Mondiale, Tocci ribadisce che lei, in effetti, non andrebbe in TV a parlarne (lei probabilmente ne faceva una questione di competenza in materia, ma dà comunque l’effetto di una gaffe). Questi sono purtroppo gli effetti distorsivi di queste trasmissioni che abbassano lo standard del dibattito a tal punto che anche personaggi ferrati nelle loro materie cadono in trappole argomentative come quelle che Orsini è bravissimo a tendere. Il risultato è che le discussioni prendono delle pieghe assurde, della serie che pur di dimostrarmi diverso in tutto e per tutto dal mio interlocutore finisco per negargli anche l’evidenza, con il risultato di svilire la mia stessa tesi. Per fare un esempio, Orsini cita spesso l’allargamento della NATO come uno dei motivi scatenanti del conflitto, concetto ormai così pop che si può sentire anche camminando per strada. Ma attaccarlo su questo punto, negandolo a priori, è comunque sbagliato perché è oggettivamente una parte della storia. È chiaro che Orsini confonde (o fa finta di) la parte per il tutto, e per quanto millanti brillanti doti di analista sarebbe proprio questa sua incapacità di dare un contesto alle cose che sostiene il fianco migliore da attaccare.

Qual è l’età giusta per essere nostalgici?

Imbattendosi nel sottobosco dei meme che ciclicamente diventano di tendenza, ce n’è uno che potrebbe essere assurto a emblema della nostalgia che i millennial (questa categorizzazione della mia generazione mi sta venendo un po’ a noia, però dire “la mia generazione” mi sa troppo autoreferenziale; peggio ancora usare “i giovani”, visto che mi sembra egualmente grave sentirmene o non sentirmene parte) provano per il loro, recentissimo, passato.

Il meme di Gohan con gli occhiali da sole ha anche numerossime varianti con altri significati, e questa con le lenti che riflettono alcuni momenti/situazioni dei primi anni duemila (anni in cui i giovani-adulti odierni iniziavano la loro adolescenza) si trova principalmente in pagine italiane. Tuttavia, quello che fa ipotizzare che questa tendenza nostalgica superi ogni confine e nazionalità è il fatto che c’è altro materiale online che trasmette lo stesso sentimento.

Per esempio, YouTube offre intere playlist dal titolo “Bro wake up its [anno]”, probabilmente di matrice anglosassone, che sono soprattutto compilation di videogiochi dell’epoca, una nicchia che gli amanti del genere usano per scandire il tempo. Quello in alto in effetti ha per protagonista un personaggio videoludico (è il G-Man di Half Life) e l’impatto inziale è abbastanza nonsense, ma comunque si presta bene a dare un messaggio universale: un uomo, sorridente, tiene un palloncino in mano con una didascalia accanto che ci intima di svegliarci, perché è il 2006. Quello che colpisce è sia il concetto di “risveglio”, come se il presente fosse un brutto incubo, e che sia dato per scontato che il 2006, anno che è lecito immaginarsi sia stato preso a caso ma plausibilmente rientrante in un’idea di quiete che trasmettono i primi anni duemila, fosse stato un anno bello per tutti.

Se ogni generazione innegabilmente trova conforto nel passato – banalmente perché si ricorda la propria giovinezza – viene però da chiedersi se per i millennial non sia un po’ presto essere nostalgici ancor prima di aver compiuto i 30 anni. Gli elementi da considerare sono forse due: 1) le cose cambiano più velocemente rispetto al passato 2) si diventa adulti (o magari lo si accetta) più tardi.

Se per il punto 1 il discorso vien da sé (c’è stato davvero un salto d’epoca il cui spartiacque possiamo approssimativamente far coincidere col 2008 – forse l’anno in cui davvero iniziò il nuovo millennio – dopo il quale tutto è andato velocissimo. Alcuni esempi sconnessi: le Olimpiadi a Pechino del 2008, la crisi finanziaria del 2007, il boom di iscrizioni in Italia a Facebok del 2008, l’avvento degli smartphone con l’iPhone del 2007, Obama vince le elezioni nel 2008, la Juventus in Serie B nel 2006), per il punto 2 l’argomento si basa più sull’impressione: d’altronde, come si calcola l’indice di maturità di una generazione? Quindi, premesso che la metodologia usabile è discutibile, una semplice affermazione può riassumere il tutto: nessuno ci aveva detto che essere adulti avrebbe fatto così schifo.

Sarebbe interessante riflettere sull’impatto che avrà questo approccio sul futuro di questa generazione e di conseguenza sulle sorti della società. Sarà meglio per tutti non prendersi troppo sul serio e continuare a fare meme fino alla vecchiaia, o la nostalgia precoce di quando eravamo ancora più giovani renderà tutti perennemente infantili?

Un parallelismo inopportuno tra Allegri e Letta

Del rapporto distorto che l’umanità ha col passato se ne parlava in questo blog quando ci fu l’incendio di Notre-Dame, ed era il 2019 (!). Mi è tornato il mente il tema della restaurazione – storicamente è quella in Europa dopo Napoleone, per estensione è qualsiasi cosa che presuppone il ritorno allo status quo ante – quando mi sono accorto che, nelle vicende italiane, quest’anno sono contemporaneamente tornati due personaggi che avevano abbandonato i rispettivi campi d’interesse qualche anno fa.

Enrico Letta era segretario del Partito Democratico dal 2013 al 2014; era il leader del PD più forte (forza relativa, se parliamo del PD) da quando esiste il PD. Massimiliano Allegri era l’allenatore della Juventus fino al 2019; anno del massimo splendore calcistico della storia recente della squadra. Entrambi sono scomparsi dai radar per qualche anno fino ad essere di nuovo richiamati alle rispettive cariche perché la situazione, disperata, lo richiedeva. Ecco – e qui finiscono i parallelismi – a questo punto della storia non sta funzionando, in maniera diversa, per entrambi.

L’idea non fa mai una grinza. Se le cose funzionavano prima, con certi fattori, basterà riportare indietro quegli stessi fattori. Soprattutto quando si tratta di persone sembra che basti rimetterle dove stavano. Il problema sta proprio qua: il cambiamento è una cosa complicata e quando si vuole ritornare artificialmente indietro nel tempo ci si dimentica che nel frattempo potrebbe essere successo che a) le condizioni esterne sono cambiate b) le persone che si richiamano sono cambiate c) le persone che si richiamano non sono cambiate, cosa forse anche più deleteria.

Allegri rientra nella categoria c: il calcio è cambiato, Allegri è rimasto lo stesso. Il caso è da manuale: semplicemente certe persone hanno il loro momento. L’unicità di qualcuno che ha lasciato il segno a volte è dettata dall’essersi trovato nel posto giusto alle condizioni giuste.

Letta forse è un’eccezione: è parte della categoria a ma anche della b. Sembra un politico diverso, in qualche modo si è “giovanilizzato” (tweetta molto, per dire, cosa da giovane per eccellenza), e in effetti il mondo politico è totalmente cambiato rispetto a quando era segretario del PD nel 2014. Però si potrebbe inaugurare una categoria d a cui appartiene Letta: è b ma non abbastanza per star dietro ad a; oppure il suo essere b non significa che sia utile ad affrontare a.*

La banalità dell’esempio aiuta a veicolare il messaggio di questo post: quando si vogliono risolvere i problemi del presente tornando al passato significa che non si sta cercando (o si sta rifiutando) di capire il cambiamento. E se come diceva Eraclito non ci si può fare il bagno due volte nello stesso fiume, la stessa cosa vale per il pallone e la politica.

[Questo post si autodistruggerà se la Juventus vince lo Scudetto e il PD le prossime elezioni.]

*Si badi bene, in politica non si contano i punti come nel calcio. Letta sta facendo bene o male? Per esempio, le elezioni amministrative sono andate bene per il centro-sinistra ma è merito di Letta? Oppure, il ddl Zan è stato affossato in Senato ma è stata colpa di Letta?