Boris era una serie molto italiana, ma non c’era niente di male

Senti Cristina, io sono molto stanco. Io ho quasi 50 anni e ho la casa mezza sfondata, questo non sarebbe grave però eh, la cosa grave è che qui a me mi stanno facendo fuori, hai capito? Io presto dovrò reinventarmi tutto e credimi che a 50 anni non è facile. Tu sei una ragazza giovane, tu prendi 200 mila euro per sei mesi di lavoro, quando c’è gente che per mille euro al mese sfonda le strade col martello pneumatico senza battere ciglio e lotta per vivere una vita di merda. Io penso che sarebbe bello per una volta vedere le cose nella giusta ottica, no? eh? E fare semplicemente il proprio dovere, senza capricci, senza problemi. In questo caso piangendo, se è il caso di piangere.

Hai finito d’attaccarmi la pippa Renè?

Boris è stato un fenomeno difficilmente spiegabile. Come molte cose che succedono nel nostro Paese non è stato parte di un movimento coerente ma un’incredibile eccezione. È stata una serie di qualità, per gli attori, per la regia, per la sceneggiatura: si è pienamente adeguata agli standard internazionali delle serie tv (che in realtà sarebbero venuti dopo) pur mantendendo dei contenuti molto italiani, italianissimi. Infatti, per quanto ben realizzata, Boris per essere fatta capire a un pubblico straniero avrebbe bisogno di un corso propedeutico di usi e costumi italiani, una sorta di Cura Ludovico, solo per avere i requisiti per apprezzarla davvero.

Intendiamoci, Boris parla di televisione e cinema, quindi prima di forzare troppo l’allegoria è giusto tenerlo a mente. Tuttavia riesce a fare magistralmente qualcos’altro: spiegare il nostro Paese. Non attaccandoci la pippa su tutto ciò che non va, ma raccontando le disfunzioni nostrane in maniera sottile e sussurrata, a volte con una semplice smorfia. Per dirla terra terra, Boris è come avere il C2 di una lingua straniera: lo so che la sai, quindi è inutile che ti spiego le basi della grammatica per comunicare. Passiamo direttamente ai dettagli. Lo spezzone trascritto qualche riga più sopra è esemplificativo di tutto ciò. In realtà è solo uno tra le centinaia che potrebbero essere presi e passati al setaccio alla ricerca di significati nascosti eppure, questo trasmette alla perfezione il livello di meta-italianità che la serie raggiunge. È una sorta di Stele di Rosetta per chi vuole davvero capire cosa significa essere molto italiani, sia negli aspetti folkloristicamente socio-politici ma anche, e soprattutto, nel sentimento che mettiamo nella nostra vita da mediterranei.

Senti Cristina, io sono molto stanco. Quando Renè inizia il suo discorso, la trasmette davvero, questa stanchezza. Inizialmente prende un respiro e fa una smorfia di impazienza mista a rancore. Poi però si rende conto che non ha la forza di arrabbiarsi e così, calcando la mano sul volto, si toglie metaforicamente la maschera, mettendo a nudo la sua vulnerabilità. È evidente che non si tratta di una stanchezza meramente fisica ma di fatica derivante da una frustrazione perenne, che lo accompagna ogni giorno sul set. La fatica di Sisifo, per intenderci: quella del reiterare uno sforzo disumano pur sapendo che non sfocerà in un successo. È probabilmente quella che lui prova lavorando come regista, il lavoro di uno che ha in mente un’idea che solo gli altri possono realizzargli.

Io ho quasi 50 anni e ho la casa mezza sfondata, questo non sarebbe grave però eh. Appena inizia il suo sfogo, Renè attinge alla sua vita personale, in una breve digressione che si dissolve quasi istantaneamente. In primis, solleva la questione dell’età, che in effetti è un incipit molto italiano quando si discute: di solito viene usata come artificio dialettico per sbattere in faccia all’interlocutore la propria esperienza; in questo caso, sembra più un voler corroborare la questione della stanchezza, che si sopporta sempre meno con l’incalzare degli anni. Poi cita un dettaglio apparentemente fuori luogo in quel momento, quello della sua casa-mezza-sfondata: sembra uno di quei pensieri che rimangono tra i processi in background nell’inconscio di qualcuno, così poco rilevanti per tutti tranne che per se stessi. D’altronde parliamo della casa, quasi certamente di proprietà, uno dei pilastri dell’identità nazionale. Poi però Renè interrompe bruscamente questo accenno di flusso di coscienza. Per chi non sarebbe grave, però? Per Cristina che lo ascolta, perché si rende conto di star condividendo frammenti della sua vita che così poco le interesserebbero, o è un promemoria per se stesso, perché si sta rendendo conto di divagare, anche se è ben conscio del fatto che nella scala delle priorità il suo problema più pressante è la casa e non i capricci degli attori?

La cosa grave è che qui a me mi stanno facendo fuori, hai capito? Nella maggior parte della serie, Renè oscilla tra la paura e il sollievo all’idea di perdere il lavoro. Tuttavia in quanto regista di fiction, il suo è più che un semplice lavoro: è anche una questione di politica. È quel “mi stanno facendo fuori” che preoccupa Renè, ancor più della casa mezza sfondata. È forse la prospettiva di essere sollevato dal suo incarico senza averlo potuto fare prima lui, di sua iniziativa. Il togliergli la soddisfazione di liberarsi di una cosa che in fondo odia, ma che deve fare costretto da non si capisce bene chi o cosa: se dal bisogno di soldi, dal senso del dovere (il lavoro visto come una cosa da fare anche se non ci piace, altra cosa molto italiana) o da un sadico piacere di girare la monnezza, come la chiama lui.

Io presto dovrò reinventarmi tutto e credimi che a 50 anni non è facile. A volte un talento – o un’opportunità – è una condanna. Renè gode della stima di molti degli addetti ai lavori, per quanto nei suoi scorci di biografia si citino solo cose di cui si vergogna di aver girato. A Renè piace il set, come a un atleta piace l’odore del campo in cui entra durante la partita. Probabilmente è questo ciò che accomuna tutti: si inizia col fare una cosa che si ama e si finisce per odiarla, a forza di seppellire la passione sotto una valanga di compromessi. Renè sa che per quanto se ne lamenti, stare sul set è la cosa che gli riesce meglio. Mettersi a fare qualcos’altro non rappresenta una nuova prospettiva ma un salto nell’ignoto. Cambiare lavoro a volte spaventa più che perderlo.

Tu sei una ragazza giovane, tu prendi 200 mila euro per sei mesi di lavoro, quando c’è gente che per mille euro al mese sfonda le strade col martello pneumatico senza battere ciglio… A questo punto Renè si rivolge finalmente a Cristina e si arriva al cuore del discorso. Vuole farle pesare tutta una serie di cose: che è giovane, quindi per definizione fortunata e senza problemi agli occhi di qualcuno non più giovane, e che è privilegiata, per quello che prende in virtù del poco che fa. Renè è consapevole che fa parte del gioco, ma forse non si capacita ancora del perché le persone con cui ha a che fare prendano più di lui faticando molto meno. Per quanto classico sia questo pattern (c’è sempre qualcuno che si fa il mazzo più di noi, e bisogna compatirlo) nel tono di Renè non c’è volontà di umiliare, ma una disinteressata intenzione di istruire. L’esempio di chi fa lavori di fatica prendendo una paga misera è un clichè, certo, eppure risulta particolarmente efficace considerando il contesto – d’altronde Renè non sembra dirlo come frase di circostanza, ma con la consapevolezza di uno che, magari in gioventù, ha davvero fatto lavori umili prima di avere successo. È in questo momento che Cristina dimostra già cosa pensa di questa conversazione. Quando alza gli occhi al cielo, non li abbassa con il fare di qualcuno che ha incassato la parternale e ne farà tesoro, ma con l’impazienza di chi ha deciso di non ascoltarti fin dal principio.

…e lotta per vivere una vita di merda. Renè conclude così il suo pensiero sui privilegi e chi non ne ha. Lo fa con un’uscita di getto, che però spiazza per il suo pathos. Lottare per vivere (comunque) una vita di merda. Nell’ideale di lotta che abbiamo, gli sforzi profusi, nel lavoro, nello studio, nella vita, non sono mai vani, perché la fatica di oggi è il successo di domani. E invece no, perché non sempre sforzandosi si raggiunge l’ottimo. Queste poche parole messe in quest’ordine aprono un universo, sul nostro Paese e sulla vita in generale: dal dibattito sulla decennale scarsa produttività nazionale, all’etica del lavoro di matrice cattolica, che sembra finalizzata quasi esclusivamente a martoriare il proprio corpo senza possibilità alcuna di emancipazione. E questa frase riesce a fartela davvero immaginare, questa lotta: la senti, te la immagini come una lunga giornata che termina accasciandosi sul divano, sul quale ti assopisci in cinque minuti dopo aver acceso la televisione. Una giornata non rilevante, che ha il solo pregio di essere finita.

Io penso che sarebbe bello per una volta vedere le cose nella giusta ottica, no? eh? Quel “no? eh?” conclude tutta la riflessione di Renè tramutandosi quasi in supplica. È la speranza di aver fatto capire il proprio punto di vista a qualcuno, con così poche parole – perché alla fine le parole sono sempre poche. Ma è anche un tentativo disperato. Quante volte ci proviamo a metterle nella giusta ottica, le cose? Quante volte proviamo a farlo capire agli attori, ai calciatori, ai politici? Però ci viene anche un dubbio lecito: ma esiste un’ottica (ed è fisicamente un’ottica?, semicit.) e per di più giusta? Per chi? Forse non è chiara perché nessuno parla mai dell’ottica di chi li prende, questi 200 mila euro in sei mesi, visto che sarebbe un punto di vista un po’ impopolare. Infatti Cristina non vede cosa dovrebbe fare di diverso e di sicuro non vede perché dovrebbe impietosirsi.

E fare semplicemente il proprio dovere, senza capricci, senza problemi. Una delle poche volte che Renè è felice, così tanto da sorprendersi, è quando l’attrice che fa il ruolo della magistrata si comporta semplicemente da professionista, recitando come da copione. Come regista, si trova quasi sempre solo nel mare in tempesta e il suo principale compito è quello di chiedere a chi gli sta intorno di fare il proprio lavoro, senza neanche pretendere di farlo bene. Eppure quello di Renè è anche un desiderio, per quanto lecito, fin troppo naïf. Tutti vorremmo ottenere le cose che vogliamo senza ricevere una reazione uguale e contraria da parte di chi ne vuole altre, spesso in antitesi alle nostre. In un contesto più drammatico, ricorda il Sindaco di Los Angeles durante la tragica rivolta del 1992: can’t we all get along? Un tentativo così ingenuo e disperato al quale però facciamo fatica a dare torto.

In questo caso piangendo, se è il caso di piangere. Renè torna al pomo della discordia: Cristina non voleva piangere nella scena che stava girando. Eppure, alla luce di quanto detto prima, forse non è più una questione di recitazione. Forse quello che non riesce a far piangere Cristina è il non averne mai avuto bisogno, mentre Renè scoppierebbe proprio mentre finisce di parlare, per la stanchezza e la frustrazione, e per questo non si capacita di cosa ci sia di così difficile nel farlo.

Hai finito d’attaccarmi la pippa Renè? In realtà era chiaro che questa cosa Cristina la stesse già pensando dall’inizio della conversazione. Renè ha parlato a cuore aperto ma sollevando temi di scarsissimo interesse per una nella posizione di Cristina. In quel momento, spiazzato da tanta sfacciataggine, Renè le dà uno schiaffo. La scena rende alla perfezione il valore di quel gesto: la violenza come mancanza di alternativa alle parole, un bisogno di contatto fisico in sostituzione di un ponte verbale che non è stato possibile erigere – ti meno perché almeno senti (sentirmi inteso come ascoltare ma anche come percepire), legittimo con la violenza la mia presenza ai tuoi occhi. È uno schiaffo punitivo, quasi genitoriale, che sanziona un’impertinenza ingiustificabile. Ma per assurdo è solo un ulteriore, vano tentativo: Cristina reagisce con gli interessi, rispedendo al mittente anche quest’ultima prova di stabilire un contatto. Insomma, tutto ciò non è servito a niente.

Stranger Things è solo un prodotto della nostalgia?

Finito di guardare la quarta stagione di Stranger Things la prima cosa che ho pensato è che questo show ha raggiunto un livello di qualità tale che la prossima stagione, quella conclusiva, rischia di non essere all’altezza delle aspettative. Questo per dire quanto questa serie mi abbia appassionato – e non sono di sicuro l’unico a pensarlo -, quindi preciso che questo non sarà un post di critica cinematografica. Tuttavia c’è stata una sensazione, quasi un rumore di fondo, che mi ha accompagnato fin dalla sua messa in onda su Netflix. La sensazione che i riferimenti culturali agli anni ottanta, il periodo in cui si è scelto di ambientarla, siano stati così forzati da risultare un po’ stucchevoli. Vedendo questo video che ne parla in relazione alla nostalgia (sicuramente quella degli autori, che hanno vissuto la loro giovinezza in quel periodo) ho trovato una conferma alle mie ipotesi.

Stranger Things ricalca alla perfezione il tipo di prodotto classico del cinema anni ottanta. Per quanto la trama sia indubbiamente originale nei contenuti, la semplicità quasi pigra di raccontare la storia (di fatto l’ennesimo scontro del bene contro il male, male che però è assoluto ed inconoscibile, quindi non passabile di salvezza o analisi: col demogorgone non ci puoi ragionare, e coi russi-comunisti nemmeno) è esattamente nello stile della cultura del periodo. C’è da dire che nella quarta stagione si arriva ad una maturità diversa, visto che forse (interpretazione mia e SPOILER) Vecna diventa un’allegoria del trauma e del senso di colpa che alcuni personaggi fanno fatica ad elaborare e che, incancrenendosi, si manifesta assumendo fattezze mostruose (metafora della sofferenza psicologica).

Più in generale, i riferimenti all’epoca sono sicuramente indispensabili per dare un contesto ma alle volte sembrano essere buttati nelle scene solo perché “fanno figo”. Un po’ come (SPOILER) la scena in cui Eddie suona i Metallica per attrarre i pipistrelli del sottosopra, che ha il duplice compito di dare epicità alla scena attingendo al tempo stesso a uno dei prodotti culturali di successo degli anni ’80, cioè la musica metal. Oppure la canzone, ricorrente per tutta la stagione, “Running up that hill” di Katie Bush che in effetti ha sortito proprio l’effetto di un revival nel presente.

Ora, queste critiche lasciano il tempo che trovano, perché è ovvio che nel cinema si forza un po’ la mano sulle storie per conferirgli il più alto grado di coinvolgimento possibile. Però viene da chiedersi, come capita da queste parti, quanto sia sano riattingere a fenomeni culturali del passato facendone dei veri e propri “remake nelle intenzioni” e non una fonte di ispirazione. Per intenderci, anche se i film dell’epoca avevano gli stessi vizi che alle volte sconfinavano un po’ in un trash ante litteram (ne cito un paio per dare l’idea: Grosso guaio a Chinatown e Highlander), vederli oggi è comunque un’esperienza piacevole perché si può respirare davvero l’atmosfera di quei tempi visto che, giocoforza, ne erano il frutto diretto. Tra l’altro, i film che ho citato a me sono piaciuti un sacco pur trasudando di tutta quell’ingenuità magica che solo quel decennio sapeva offrire.

Insomma, mettendola un po’ terra terra, verrebbe da chiedersi perché preferire la copia all’originale. O meglio, perché la storia di Stranger Things non poteva essere ambientata ai giorni nostri? Che valore aggiunto le conferisce l’essere ambientata negli anni ’80? Ovvio che si tratta di tutte domande retoriche, che però celano quella sensazione di non riuscire a schiodarsi da un passato che assume delle connotazioni positive per definizione. D’altronde la tranquillità che offre la nostalgia è il miglior rimedio ad un presente un po’ troppo movimentato.

Rielaboriamo gli anni duemila: Malcolm in the middle era davvero una bella serie

Continuiamo con la seconda puntata della serie “i bei vecchi tempi della nostra adolescenza”. Dopo Scrubs, c’è un’altra sitcom – prima che venissero chiamate serie – che davvero aveva un grande spessore nella sua apparente semplicità. La trama, in breve, è la storia di Malcolm, un ragazzo intelligentissimo ma (o proprio a causa di ciò) dannatamente infelice. Nel 2017 trovai forse l’unica lettura di questa serie in chiave “sociale” in questo articolo di Vice, che partiva da ottime premesse per poi perdersi un po’.

Malcolm è una specie di racconto di formazione con elementi che fanno pensare al verismo di Verga. È stata una delle poche creazioni popolari dello spettacolo americano fatta in America ma allo stesso tempo lontanissima dalla cultura (cinematografica e non) Americana. Questo perché in Malcolm non esiste quella dimensione caricaturale dell’eroismo hollywoodiano dove il protagonista, dotato di un’abilità speciale, affronta un percorso difficile e lo supera con un lieto fine. Il finale di Malcolm [SPOILER] consiste in Malcolm che riesce ad iscriversi ad un importante college nonostante le ristrettezze economiche della famiglia, ma se lo può permettere lavorandoci nelle ore libere come bidello.*

Malcolm non viene rispettato perché è dotato, anzi, viene bullizzato come – se non più – di un ragazzo normale. L’intelligenza di Malcolm non gli conferisce una visione lucida delle cose ma lo angoscia. E soprattutto, cosa che sancisce l’originalità della serie, quando alla fine della puntata Malcolm subisce l’ennesima sconfitta non ci viene neanche voglia di compatirlo, perché in fondo se l’è cercata. Il personaggio di Malcolm cresce ad ogni episodio ma il suo percorso, come quello di tutti noi, non è lineare bensì discontinuo; non è detto che ad ogni errore commesso segua una lezione imparata (non nell’immediato almeno).

Se Malcolm da un lato incarna la parte più simbolica della serie – l’adolescenza, la crescita, il sentirsi accettati dai propri pari – dall’altro la sua famiglia rappresenta il contesto sociale americano reale. È per questo che l’articolista di Vice definisce la serie “un capolavoro socialista”, probabilmente scambiando chi semplicemente subisce le storture del capitalismo per socialista. Il fatto è che la famiglia di Malcolm è economicamente disagiata: nonostante entrambi i genitori lavorino – sviliti, demotivati e sottopagati – e ai figli venga consigliato (vedi imposto) di fare dei lavoretti saltuari per far quadrare i conti, i conti a fine mese non tornano mai e la famiglia si trova sempre sul lastrico. Intendiamoci, parliamo di una povertà relativa ma soprendentemente tangibile per gli standard di una serie americana: banalmente, in ogni sitcom americana c’è un arco narrativo che si svolge in qualche isola tropicale tipo Bahamas o Hawaii per far fare agli attori e allo staff qualche bella sessione di riprese rilassanti. E non si capisce come i personaggi di queste serie, nel loro mondo fittizio, riescano a permettersi queste vacanze perché non li si vede mai lavorare o pagare le bollette. In Malcolm le cose sono più verosimili: la famiglia si permette al massimo il lusso di una gita in un anonimo lago in una chiatta troppo stretta per un solo triste weekend. Ma la famiglia di Malcolm, contrariamente all’articolo citato, non vive una rivoluzione socialista; più che altro ne subisce una fatalista. A tavola non si parla di quanto il sistema ingiusto faccia vivere tutta la famiglia nella frustrazione e nell’ansia di non condurre una vita più agiata ma si accettano le regole del gioco e le si subiscono in silenzio. Questo, purtroppo, può sembrare una triste accettazione dello status quo, un’agiografia del capitalismo, che per quanto crudele è così e bisogna accettarlo. Ma, e qua l’agiografia la faccio io, non si può rimproverare alla famiglia di Malcolm non essere abbastanza rivoluzionaria: ognuno, nel mare in tempesta, si rifugia sull’isola che può più dargli un conforto, anche se momentaneo. E in Malcolm quest’isola, per quanto bistrattata, è la famiglia stessa.

Il periodo storico della messa in onda dello show – dal 2000 al 2006 – è interessante perché, generalizzando, la storia della famiglia di Malcolm era ed è oggi ancor di più la realtà di molte famiglie medie americane – o forse occidentali, con i dovuti distinguo Europa-USA. Non è un caso che quella dagli anni ottanta al 2007 sia stata definita l’epoca della “Grande moderazione“: perché la regola di tante famiglie era (ed è) quella di condurre una vita, economicamente parlando, modesta, lontana dal luccichìo delle mirabolanti ricchezze che il capitalismo (o meno marxisticamente: la società moderna) promette vicine. Anzi, quando si prova a fare gli Icaro del consumismo ci si pente di aver osato troppo con le soddisfazioni effimere che il denaro permette di avere (la casa di Malcolm è piena di acquisti inutili di cui viene rigorosamente puntualizzato l’insensatezza). Per farla breve, uno show umile come questo aveva dato una visione della realtà della vita quotidiana della famiglia media americana più verosimile dei modelli degli economisti pre-crisi.*

Un altro tema molto sottile ma pulsante della serie è il rapporto con la diversità, di cui parla anche Vice: non solo c’è una ricca diversità culturale dei personaggi ma c’è anche un’intersezionalità “virtuosa”.* Per intenderci, i migliori amici del papà di Malcolm, Hal, sono degli afromericani benestanti con cui gioca spesso a poker e che lo prendono in giro perché non ha accessori costosi come i loro. Sarebbe interessante capire se c’era del simbolismo anche in quello o era solo un rovesciamento della realtà a fini comici: era perché si voleva far notare che esiste anche una borghesia afroamericana, con gli stessi vizi di quella bianca? O perché ci fa capire meglio cosa significano le differenze di censo, che sono più evidenti quando si rovesciano le parti? In ogni caso è stupefacente quanto l’ingenuità delle battute dei personaggi sembri così autentica: quando Hal si lamenta delle angherie dei suoi amici neri lui dice di sentirsi discriminato perché diverso; e quando i suoi amici cambiano espressione pensando si riferisca al colore della pelle lui aggiunge: “Perché voi siete professionisti e io no”.

E poi c’è la famiglia. Quella di Malcolm è una di quelle da farti venire traumi a tutte le età: c’è Lois, la mamma dispotica, Hal, il papà sconclusionato, Francis il figlio teppista, Reese quello scemo, Dewey quello strano. Anche qua la serie si distacca dallo stereotipo della famiglia americana-tipo che ci aspettiamo, quella dove i genitori sono figure occasionali che si dissolvono dopo che hanno cacciato da casa a pedate i figli non appena compiono 18 anni. La famiglia di Malcolm è una famiglia molto all’italiana, onnipresente e ingombrante, che pretende di controllare ogni aspetto della vita dei figli. Tanto che in un episodio, Malcolm viene ammesso a una prestigiosa università di Londra e quando dice al padre che vorrebbe andarci lui gli risponde: “Assolutamente no, se te ne vai tu come faremo? Sei la nostra unica salvezza!”.

L’articolo di Vice conclude, con una forzatura dettata dal momento storico, chiedendosi se la famiglia di Malcolm avrebbe votato Donald Trump (secondo me, contrariamente ai caratteri dei personaggi, Hal è repubblicano e Lois è democratica). Ecco, secondo me è proprio sbagliata la domanda. Probabilmente la politica era un tema che tangeva superficialmente la famiglia di Malcolm e parlarne non aiutava di certo a sbarcare il lunario. In tutto ciò Malcolm è probabilmente stata la serie meno patriottica d’America senza volerlo. Ed è per questo che è piaciuta un po’ in tutto il mondo.

*Le parti in asterisco sono quelle che mi sono accorto di aver scritto uguali all’articolo senza rileggerlo. Un plagio inconsapevole è pur sempre un plagio.

È che mi dispiace per Gina Carano

Della storia di Gina Carano, Cara Dune di The Mandalorian, non si è parlato poi molto da queste parti. Oggi però ho letto un articolo, bruttino ma da apprezzare la posizione scomoda che ha preso, che mi ha fatto venire voglia di parlarne, a me stesso.

Alla luce della complicazione morale che ha raggiunto il nostro mondo è difficile dire dove sia il torto e la ragione in storie come queste, perché le due cose spesso di intrecciano. Quindi mi limiterò a elencare degli scenari:

Gina Carano meritava di essere licenziata. Sì, perché non è solo il fatto che hai paragonato la condizione dei repubblicani a quella degli ebrei durante la persecuzione nazista ma sei anche no-mask e pensi che le ultime elezioni americane sia state viziate da brogli. Sei un personaggio pubblico, hai un seguito importante perché fai parte di una serie di successo, puoi avere le tue idee, certo, magari anche in disaccordo con la compagnia per cui lavori, ma è il caso di sfruttare la tua notorietà per fare, quella che di fatto è, propaganda? E poi sei un’attrice: rappresenti un volto, un personaggio, che ti porti dietro anche nella vita privata, almeno per le milioni di persone che ti vedono sullo schermo. Se non rispecchi l’immagine che la Disney vuole dare di sé, la Disney è libera di non ritenerti idonea per future collaborazioni nei suoi progetti.

Gina Carano non meritava di essere licenziata. No, perché hai sicuramente fatto un paragone iperbolico e abbastanza inopportuno ma sei stata tacciata di un negazionismo che non sta in piedi. Non hai negato l’olocausto, anzi, lo hai usato per trasmettere l’idea che, secondo quello che percepisci, sta accadendo qualcosa di simile (inteso come intolleranza) ai repubblicani. Ok, hai sostenuto i no-mask. E sì, dici che ci sono stati brogli alle elezioni. Come lo sostengono altri milioni di americani, magari anche loro su internet, ma senza venire licenziati per questo. E, in ogni caso, se qualcuno ha scarsa fiducia nel sistema perché non venirgli incontro e parlargli invece di censurarlo perché tanto dice solo sciocchezze? Davvero la risposta alle idee “sbagliate” è impedire di esprimerle?

Gina Carano meritava di essere licenziata, ma mi dispiace lo stesso. Scrivendo, faccio fatica anche io a giusticare al 100% quello che ha scritto Gina. Sento che c’è qualcosa di sbagliato però, qualcosa di non risolutivo in storie di questo genere. Per quanto sia un sostenitore convinto del paradosso della tolleranza, sento che si stanno attaccando dei nemici che non lo sono. Trattare Trump e un sostenitore di Trump allo stesso modo non funziona, ed ho la ferma convinzione che sul lungo termine non porti a nulla di buono. E anche se Gina dice cose che non condivido non riesco ad odiarla. La apprezzo per quello che rappresenta nello show di cui fa parte. Mi piace perché mi piace su The Mandalorian. È superficiale, lo so, ma fa sempre male scoprire quando qualcuno che ti sta simpatico non la pensa come te.

Vent’anni di Matrix

Proprio ieri ricorrevano i venti anni dall’uscita del film Matrix. Correva l’anno 1999. Ignaro di questo anniversario qualche giorno fa me lo ero riguardato, dopo che era stato aggiunto insieme agli altri due capitoli della trilogia sul catalogo di Netflix.

Rivederlo mi è servito a due cose. 1) Leggendo qua e là ho scoperto che era stato criticato da molti nonostante il successo al botteghino (anche da Jean Baudrillard, che ispirò i registi) e 2) ho capito quanto sia stato un film importante per definire l’inizio del nostro secolo. Sarebbe inutile ripetere trama, filosofia e impatto cinematografico che Matrix ha avuto dato che persone più qualificate di me hanno già detto tutto a loro tempo. Mi limiterò a riportare qualche pensiero utile ai fini di questo blog.

La prima cosa che mi sono chiesto è stata: Matrix è stata una profezia sul futuro o una semplice constatazione del presente che era in atto? Non importa. Matrix mi è sembrato un film concepito da una civiltà giunta alla sua maturità che ha iniziato ad interrogarsi non solo sull’umanità ma anche sulla sua esistenza (o meglio sulla sua consapevolezza di esistere) in quanto tale. E ha trovato il modo più efficace di spiegarlo tramite numeri verdi che scorrono su di uno sfondo nero.

Ho sempre trovato particolarmente sorprendenti alcune analogie tra l’informatica e la realtà. Quando Neo diventa l’eletto – e lo diventa perché eletti non si nasce (e qua si aprirebbe tutta un’altra parentesi sulla predestinazione, ma facciamo un’altra volta) – vede l’agente Smith e la realtà Matrix che lo circonda per quello che è, ossia righe di codice di programmazione. D’altronde Neo, quando viene scoperto da Morpheus, era un abilissimo hacker.

Ecco, c’era una visione di internet molto romantica vent’anni fa. Il protagonista del film era semplicemente una persona che ci sapeva fare col computer, un’idea lontana anni luce dall’archetipo dell’eroe armato di spada e scudo. All’inizio del secolo, l’umanità che descriveva Matrix era in lotta contro le macchine che l’avevano resa schiava e contro la realtà stessa dell’esistenza. Con le macchine non ci stiamo (ancora) combattendo, ma con l’esistenza?

E ho riscoperto anche questa band ultra-gasante