Matthew Perry era un Bojack Horseman buono

Era esattemente un anno fa quando lessi questo articolo su Matthew Perry rimanendo turbato, perché mi resi conto che anche dietro la spensieratezza di Friends aleggiava lo spettro della sofferenza umana. In realtà c’era poco da esserne scioccati: come succede nella vita di chiunque, e i personaggi famosi non ne sono esenti ma anzi, a volte ci si trova a combattere contro i propri demoni. E a volte non ci è concesso sconfiggerli. Eppure, stamattina, quando ho letto la notizia della sua scomparsa non ho potuto fare a meno di sussurrare allo schermo che mi stava di fronte “ma che cazzo dici?”. Tra l’altro, Friends avevo cominciato a rivederlo proprio in questi ultimi giorni.

Il senso di lutto diffuso che causa la scomparsa un personaggio famoso può essere spiegato al di là del moto di empatia che incosciamente proviamo perché quella persona credevamo di “averla conosciuta”: quando ci lascia qualcuno come Matthew Perry, il ricordo condiviso di ciò che rappresentava – in questo caso gli anni novanta o semplicemente una serie che ci metteva di buon umore – assume contorni diversi, generando un miscuglio di nostalgia e inquietudine. Nostalgia perché ricordiamo il passato, inquietudine perché di quel passato ci rendiamo conto che stanno scomparendo le tracce.

Ancora più strano è lo scoprire che, per quella persona, gli stessi momenti che noi abbiamo consumato per ottenere i nostri futuri-ricordi piacevoli sono coincisi, per essa, con l’inizio di una forma di sofferenza derivante proprio dal suo nuovo status di personaggio famoso. Difficile dire se gli autori si fossero ispirati alla sua vicenda eppure quando, sempre poco tempo fa, ho rivisto Bojack Horseman mi sono convinto che la sua storia fosse incredibilmente simile a quella di Perry, dopo averla conosciuta da quell’articolo: l’alcolismo, l’abuso di farmaci, la depressione, la paura di non piacere più, tutti problemi di qualcuno che doveva la sua fama a una serie che parlava di qualsiasi cosa eccetto che dei problemi della vita, a cui Horsin’ Around in effetti fa il verso*. In realtà è più probabile che dietro tutto ciò ci sia solamente una matrice comune e che sia il mondo dell’intrattenimento in sé ad essere portatore sano del fenomeno. Fa solamente più male quando si associa il dramma dell’esistenza ai prodotti cultural-pop più semplici e innocui, in cui pretendiamo che gli attori che interpretano quei ruoli siano davvero felici e spensierati anche fuori dal set, possibilmente per sempre.

Quando recentemente ho finito di rivedere Bojack Horseman a qualche anno di distanza dalla prima volta, ho provato a dedicargli un post: ho adorato la serie, e il rewatch me l’ha confermato, ma ci trovavo un difetto di fondo. Volevo dare sostanza alla tesi che storie come quella di Bojack in realtà non ci avvicinano affatto alle persone famose solo perché ci raccontano che, anche loro, soffrono: pur correndo il rischio di fare una discriminazione di classe al contrario – visto che sei ricco non venirmi a raccontare che sei depresso, tu almeno sei ricco -, bisogna comunque fare attenzione nello scegliere a chi dedicare la nostra limitata scorta di empatia. D’altronde, si può anche essere depressi e stronzi, oppure essere infelici a causa del proprio essere stronzi, e nel caso di Bojack ci si avvicina proprio a entrambe le conclusioni – ed è difficile capire se è la serie stessa a voler farci andare verso questa direzione. Ed è per questa ragione che non sono riuscito a costruirci sopra una critica convincente. Non ci sarà dato sapere com’era davvero il Matthew Perry uomo, ma la piega drammatica che prese la sua vita fu così prematura e così pervasiva che viene spontaneo un senso di simpatia, come se ci fosse qualcosa che lo facesse sembrare una persona buona proprio come lo era quando interpretava Chandler Bing.

L’ultima scena di Friends ha una potenza davvero micidiale per la sua significativa semplicità. A chi dovesse avventurarsi in questo blog consiglio di non vederla senza aver visto (o rivisto) tutta insieme l’intera serie. Nel momento in cui Chandler [INIZIO SPOILER] rimane l’ultimo del gruppo a dire l’ultima battuta prima di uscire da quella casa/set parte Embryonic Journey dei Jefferson Airplane, mentre la telecamera ci fa una lenta panoramica dell’appartamento ormai vuoto. Una scelta di regia che colpisce, sia per il fatto che raramente in Friends si sentono brani originali famosi, che per aver scelto una canzone così unica, mistica e senza testo**. Non c’era modo migliore di concludere una serie che raccontava la quotidianità se non quello di inserire un grande cambiamento. Quella scena descrive in realtà un momento che capita a tutti di provare nella nostra vita ma che solo in poche occasioni abbiamo l’opportunità di vivere lucidamente: il momento in cui sappiamo che quella, proprio quella, sarà l’ultima volta in cui salutiamo qualcuno.

*In Bojack, c’è un arco narrativo in cui uno dei personaggi secondari di Horsin’ Around vuole fare uno spin-off con lui protagonista a anni di distanza dall’ultimo episodio. Successe quasi esattamente la stessa cosa con Joey di Friends.

**Perry dirà in seguito che mentre tutti si commossero alla fine delle riprese, lui non provò nulla, e non potè dire se fosse a causa degli oppiacei che assumeva all’epoca o del fatto che si sentisse già a quel punto “morto dentro”.

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