Vademecum sul fare la guerra

Da quando è iniziata la guerra parlarne è diventato una sorta di esercizio terapeutico in cui, in un simbolico lettino da psicoanalista, si cerca di capire come possa essere successa una cosa che era stata bandita dalla nostra agenda sociale. Essendo disabituati all’idea stessa di guerra, il modo in cui si affronta quotidianamente l’argomento in ogni mezzo di informazione non è basato sulla lucida analisi dei fatti (nei limiti dell’oggettività possibile) ma sull’onda di un’emotività che, seppur comprensibile i primi giorni, è diventata ormai perenne. Così il dibattito, e viste le circostanze diventa difficile definirlo tale, non è di fatto progredito di una virgola.

Infatti l’opinione pubblica (rimaniamo su quella italiana, per una banale questione di prossimità) ha prodotto una serie di mantra che, per definizione, vengono ripetuti costantemente e quotidianamente in ogni mezzo di informazione. Il fenomeno è interessante ed ha molte analogie con il come si è parlato di Covid, all’epoca. Grosso modo, le stesse parole, a seconda dell’intonazione con cui vengono dette o cambiando la posizione dei lemmi, creano opinioni divergenti in base a chi le proferisce. E sono opinioni scolpite nella roccia, che guai a cambiarle col mutare delle circostanze. Ma facciamo un elenco, sennò non si capisce.

Non bisogna far arrabbiare Putin” (a volte sottinteso “Sennò usa l’atomica“). La Russia ha iniziato la guerra. La Russia ha l’atomica. Ergo, meglio non disturbarla mentre fa la guerra perché sennò si arrabbia di più e fa cose di cui potremmo pentirci tutti. Un po’ come il bullo che ti ruba la merenda: è proprio il caso di reagire quando lui, seppur nel torto, potrebbe farci qualcosa di peggio, tipo picchiarci? Nel glossario della guerra fredda esisteva un concetto il cui acronimo era MAD (Mutual Assured Destruction). In breve, se io uso l’atomica va a finire che la usi anche tu. Quindi nessuno vince quando siamo entrambi ridotti a un cumulo di macerie radioattive. Era l’equilibrio del terrore, ed ha funzionato piuttosto bene finora. Le cose cambiano quando si rovescia il concetto: visto che io ho l’atomica e non ho paura di usarla non devi interferire in quello che faccio, sennò la uso. Il problema è che così dall’equilibrio si passa al ricatto. Il fatto è che questo cambio di paradigma porta al gioco del pollo: se si ricorda alla Russia che, alla fine, non è l’unica ad avere armi atomiche allora si corre il rischio di usarle davvero, mentre se si fa finta di non averle allora si legittima la prepotenza di minacciarne l’uso a seconda dei propri capricci.

Non si parla più di negoziare” (o con la variante “La diplomazia ha fallito“). Prima di iniziare una guerra si avanzano delle richieste. Tuttavia a volte queste richieste sono così manifestatamente irrealizzabili che diventano un mero pretesto. Ad ogni modo, le richieste che vengono avanzate schierando l’esercito al confine di un paese prendono la forma di un ultimatum. Intendiamoci, erano passati otto anni dalla silenziosa guerra di Crimea e Donbass e, eccetto qualche blanda condanna e sanzione, si era fatta la figura degli struzzi. In quel caso certo, la diplomazia poteva fare di più. Diverso è il contesto attuale. Quali sono gli obiettivi della Russia? Quanto l’Ucraina è disposta a perdere per ottenere la pace? Quando l’esercito russo era a Kiev negoziare per gli ucraini significava perdere tutto il paese. Ora che i russi sono impegnati a consolidare il Donbass, negoziare significa perdere solo quella parte di paese, di fatto già “persa” dal 2014. Insomma, il negoziare non è questione di stringersi la mano e amici come prima. Qualcuno deve rinunciare a qualcosa in un determinato momento, di solito quello più conveniente a una delle parti. E nelle fasi più acute di un conflitto, quando è ancora difficile perdonare le morti e la distruzione, di solito non si negozia, ma ci si vendica.

La Nato non si è comportata bene” (oppure a mo’ di incipit di quiz logico-deduttivo “Se la Nato non si fosse allargata verso est allora …“). Uno dei pensieri che ha raccolto più successo in questa storia è stato quello che, in fondo in fondo, la Nato se l’è cercata. Cosa notevole, se si pensa che fino a poco fa i membri stessi dell’alleanza non ne capivano più il senso. Ora, sarebbe poco onesto cadere nell’estremo opposto. La storia dell’allargamento della Nato verso est è un fatto. Che però questo sia avvenuto per mettere in difficoltà la Russia (fino a minacciarla territorialmente) è un’opinione. Non è facile tracciare una linea di continuità quando si parla di politica internazionale. Nel modo in cui viene usata, “Nato” è anche un’allegoria che sottindende “Stati Uniti”. Però “Stati Uniti” significa, in parte, “governo degli Stati Uniti” il quale resta in carica quattro anni e, cambiando, cambia alcuni dei suoi obiettivi. Ad esempio quando l’Urss stava per disgregarsi questo non faceva piacere all’allora Presidente Bush senior che preferiva avere un interlocutore unico e intero piuttosto che decine sparsi per l’Europa orientale e l’Asia centrale ognuno con le sue rivendicazioni. Ma poi dopo di lui venne il Presidente Clinton, che invece considerava l’ingresso di questi nuovi paesi nella Nato un modo di consolidare queste nascenti democrazie dell’Est Europa (e perché no, esercitarci anche un’influenza). Questi paesi inoltre, militarmente deboli e politicamente instabili, si sono rivelati di fatto solo un onere per gli Usa che, se necessario, dovrebbero intervenire con uomini e mezzi propri per rendere credibili gli impegni militari che hanno con quasi tutto il mondo.

Intendiamoci, questi pensieri non sono completamente assurdi di per sé. Tradotti dallo sloganese, potrebbero diventare rispettivamente: non umiliare il nemico, risolvi i problemi prima che diventino ingestibili, capisci il senso delle tue alleanze. Anche se possono sembrare consigli che darebbe Sun Tzu, effettivamente certe dinamiche della guerra sono rimaste inalterate fin dalle sue origini. Del resto: la guerra, la guerra non cambia mai. Solo che, come solito, ripetere a pappagallo fatti che si mischiano ad opinioni che vengono sempre raccontati parzialmente e fuori contesto fa perdere la bussola del dibattito, ammesso che esista proprio una bussola. Ma quello che colpisce, a prescindere che sia fatto scientemente o meno, è che si viva in uno stato di negazione della guerra come concetto. Certo, tutti vorremmo un mondo senza guerra. Ma il mondo non si conforma necessariamente a questa volontà e purtroppo, in attesa di una definitiva illuminazione del genere umano, bisogna accettarne l’eventualità. Ritrovare il senso di parlarne, senza la paura di essere additati come guerrafondai o pacefondai, è essenziale per maturare come società.

Forse bisognerebbe invidiare i boomer

Era solo una questione di tempo prima che i boomer venissero memizzati. E così è successo diciamo dal 2019, secondo le statistiche di Google.

Google Trends

Intendiamoci, internet mastica concetti già esistenti e li risputa sotto forme appartentemente nuove, infatti tutti sanno che “boomer” deriva da “baby-boomer” ossia una categoria demografica che indica i nati dal dopo-guerra fino ai primi anni ’60, che hanno goduto dei dividendi della pace e della ripresa economica della seconda metà del ‘900. Penso che un momento di svolta per la popolarità del concetto sia stato quando una parlamentare neozelandese millennial abbia risposto ad un boomer scettico sul cambiamento climatico liquidandolo con, appunto, un “Ok boomer“.

Da allora c’è stata una freccia in più, nella nostra piuttosto scarna faretra generazionale, per esprimere efficacemente il disagio che proviamo per la generazione dei nostri genitori, ritenuti colpevoli di aver scatenato la crisi climatica, quella economica e le cavallette.

Per assonanza però, internet ha creato un concetto innovativo, in netto contrasto con la faciloneria e il carpe diem consumistico del boomer. Si tratta del doomer.

La personificazione del doomer è abbastanza eloquente. Le occhiaie, la sigaretta, il cappello scuro, la barba sfatta, lo sguardo perso nel vuoto. Il doomer è l’essenza della rassegnazione. Pensa che ogni azione che farà nella sua vita sarà inutile per rendere le cose migliori, in primis per se stesso. Viene schiacciato dal peso di un mondo che sembra fuori controllo – lo è stato mai in controllo? – e ogni battaglia, politica, sociale, ambientalista, gli sembra troppo vana da combattere. Il doomer non è un personaggio necessariamente negativo. Probabilmente non odia il mondo, solo che ne è profondamente deluso. Si rinchiude in una solitudine esistenziale senza avere, o cercare di ottenere, una risposta risolutiva alle sue angosce.

Ora, dire che il doomer sia un’interpretazione universale della generazione Y e Z è un’esagerazione. Eppure qualcosa di verosimigliante esiste. Anzi, vista la situazione direi che sia un mezzo miracolo che non siamo diventati tutti dei doomer. Ma date le circostanze mi sono chiesto, dovremmo forse invidiarli, i boomer?

Pensiamoci. I boomer hanno goduto di tutte le meraviglie della società moderna. Una in particolare: la fiducia nel futuro. E per fiducia nel futuro intendo un futuro molto prossimo, vicino al presente. Il futuro della cicala, insomma. Ed è stata una rivoluzione sociale: non far parte della società in qualità di ingranaggio che funziona per un bene supremo, ma un bene supremo, la società, che funziona per il benessere dell’individuo. Questo passaggio dal comunitarismo all’individualismo (che ha avuto il suo apice negli anni ’80) è stato copernicano ed ha avuto come conseguenza una forte miopia nel considerare le proprie azioni come non foriere di conseguenze per il prossimo (vedi crisi ambientale). Però, chiediamoci, al loro posto che cosa avremmo fatto? Ovvio che anche allora esistevano sensibilità altrettanto sofisticate delle nostre (la scusa di ritenere i nostri precursori come ingenui non regge) – e il discorso del presidente Carter sul malessere della società è un esempio tremendamente attuale – ma in qualche modo si pensava che, come nei migliori film di Hollywood del tempo, l’umanità avrebbe trovato il suo eroe che avrebbe salvato la giornata.

È ovvio che da un punto di vista evolutivo questo approccio non potrebbe funzionare, non più. Il vero progresso consisterà nell’essere razionalmente ottimisti, quindi aspettandosi che le cose potrebbero andare male pur avendo fatto tutto nella maniera giusta, piuttosto che tornare ingenuamente ottimisti, aspettandosi che le cose potrebbero andare bene pur facendo tutto male.

Però diamine, quanto sarebbero stati belli i nostri anni ’80.

Quale sarà l’evoluzione della parità di genere?

Tempo fa venne fuori un articolo a proposito di una situazione bizzarra nella redazione del Washington Post. Non era bizzarra tanto per l’argomento quanto per l’evoluzione, un po’ grottesca, della vicenda. In breve, un redattore del giornale ha ritwittato una battuta sessista. Una sua collega, risentita, lo segnala ai superiori. Il redattore si scusa pubblicamente, ma la situazione non si risolve e la polemica continua, dentro e fuori la redazione. Per riflettere meglio su questa cosa mi viene in mente il metodo che usa Quentin Tarantino nei suoi film: viene dedicata una parte della storia a ognuno dei protagonisti, che la racconta dal suo punto di vista.

Dave Weigel, il redattore. Se ne esce con una battuta, ancor prima che sessista, davvero triste e da boomer. Della serie: «Ogni ragazza è bi. Devi solo capire se -polare o -sessuale». Il suo gesto rientra nell’insieme più ampio della problematica che affligge il genere umano dall’avvento dei social network: dimenticarsi che la platea a cui ci si rivolge quando si scrive è potenzialmente infinita. Per la legge dei grandi numeri, qualunque cosa tu scriverai online urterà la sensibilità di qualcuno, perché le sensibilità delle persone sono variegate e molteplici. Per dire, la stessa battuta ad un tavolo di soli uomini ad un bar avrebbe avuto scarsa probabilità di urtare la sensibilità di qualcuno. Su internet è diverso. Ma allora, la differenza tra l’essere sessisti e l’essere inopportuni dipende solo dal contesto? Una volta appurata questa banale verità passiamo alla sostanza della battuta. Ovvio, è un’esternazione sessista. Ma sessista quanto? Come in tutto esiste uno spettro di gravità delle cose. Qua si gioca sullo stereotipo della donna umorale. Ma casi ben più urticanti e inopportuni non mancano. Si pone però un problema: qual è la soglia di tolleranza? Bisogna chiudere un occhio perché una battuta così, alla fine, non mette a repentaglio le conquiste delle battaglie di genere? Oppure lo fa, così come, per analogia, un ladro di galline e un ladro di banche sono pur sempre due ladri allo stesso modo?

Felicia Sonmez, la redattrice. In una redazione importante come quella del WP, certe tematiche vengono affrontate con la stessa intensità con cui le si affronta sul giornale. D’altronde, certe battaglie di civilità non possono terminare quando si timbra il cartellino. Tuttavia si apre un’altra questione: dopo aver sollecitato la dirigenza, Sonmez decide di rendere pubblica la diatriba pubblicando il suo j’accuse su Twitter. In questo caso, la visibilità aiuta o ostacola la risoluzione della controversia? Per fare un esempio virtuoso, quando divenne di tendenza il #metoo le donne che resero pubbliche le loro esperienze personali di disagi vissuti con gli uomini provocarono un doppio effetto: far sentire meno sole le altre donne vittime di questi comportamenti, sensibilizzare gli uomini facendogli capire che alcuni loro comportamenti erano tossici. Un win-win. Ma in questo caso? Dove sta il confine tra “insabbiare” la faccenda (tuteliamo il giornale) e cercare di risolvere la questione senza la pressione dell’opinione pubblica (tuteliamo i dipendenti)? Inutile dire che l’effetto è stato scontato: Weigel si è beccato un po’ di insulti da parte di centinaia di sconosciuti. E anche volendone fare una questione di giustizia morale, il luogo era comunque inadatto: la rete non è un tribunale, anche se emette sempre una sentenza.

Jose A. Del Real, redattore gay e messicano. In un tentativo di conciliazione entra in gioco un altro personaggio. Del Real cerca, pur non giustificando il collega, di gettare acqua sul fuoco sostenendo che la questione sia sfuggita di mano. Ed è lui stesso a sottolineare che, appartenendo a una doppia minoranza, sa di cosa sta parlando. Questo intervento è interessante: da un lato è comprensibile la necessità di una figura super partes per dirimere la questione (sono uomo ma sono gay e messicano, quindi ho lottato contro la discriminazione come hanno fatto le donne = sono sensibile a entrambe le categorie) dall’altro indica il solco che si è creato tra i due schieramenti. Infatti, sarebbe stato difficile per un altro attore, uomo o donna, intervenire da paciere senza essere accusato di sabotare l’una o l’altra fazione. Che poi fino a che punto si poteva arginare questa volontà punitiva? Weigel si è scusato, è stato sospeso, gli è stata tolta la paga. Per arrivare al punto di sollecitare l’intervento dei suoi colleghi in sua difesa, pur essendo considerato nel torto, si sono forse pretese misure sproporzionate?

Il finale, alla Sergio Leone. È davvero difficile in storie come queste trarre una morale che non corra il rischio di essere troppo ideologizzata, e che quindi non sarebbe più una morale. Il problema di queste storie è che, ognuno puntando la pistola alla testa dell’altro, ogni presa di posizione rischia o di sminuire (suvvia ragazzi, tutto ‘sto casino per cosa?) o di sopravvalutare (oh ma il patriarcato si nasconde nei dettagli) una tematica che di per sé è fondamentale per il futuro della nostra società. Certo, c’è da fare la tara: queste sono storie americane, di un paese dove ogni cosa è più grande del normale, anche le parole. Ma ciò non deve far passare in sordina il fatto che i rapporti uomo-donna, che non sono conflittuali da oggi solo perché se ne parla di più, stanno diventando un terreno di scontro consapevole, e questi episodi sono paragonabili ad una corsa agli armamenti. D’altronde, è la più classica della battaglie che si rivelano sanguinose: tra gli uomini, il potere costituito, che temono di perdere lo status quo, e le donne, la minoranza oppressa, che hanno fretta di essere liberate.

Cosa vuol dire essere pacifisti, oggi?

Da quando è iniziata la guerra si è creato un interessante fenomeno nella ormai consueta polarizzazione del dibattito pubblico. Tradizionalmente, in questo genere di situazioni, ci si divideva in interventisti, se uno voleva la guerra, e non interventisti, se uno non la voleva. Un esempio classico è stato, per l’Italia, la Prima Guerra Mondiale: o si voleva la guerra per riannettere le terre irridente (una motivazione sentita ai tempi, ma non esiziale per le sorti di un paese che avrebbe potuto continuare ad esistere anche da non belligerante) o non la si voleva fare, rimanendo neutrali per diverse ragioni. Viste le dinamiche più sui generis della guerra in Ucraina (non stiamo intervenendo direttamente, ma stiamo partecipando surrettiziamente) il dibattito si è sbilanciato solo da un lato creando una sottocategoria del pacifismo che vede contrapposto chi vuole la pace con la forza e chi la vuole senza. Quindi il problema non è che nessuno vuole la pace, solo che sono diverse le condizioni che si vogliono soddisfare per arrivarci. È difficile dire quale delle due filosofie sia la più giusta, anche se entrambe vengono un po’ usate strumentalmente in base all’appartenenza politica o alla mediaticità del momento, quindi invece che prendere le parti sarebbe più utile riassumere gli scenari.

Vogliamo la pace inviando armi. Quello che ha fatto la Russia dando inizio alla guerra è sostanzialmente un attacco a tutto il set ideologico in primis occidentale, ma ormai condiviso anche a livello mondiale. Ha rimesso in discussione equilibri e principi che sono stati forgiati nei duri anni della Seconda Guerra Mondiale e della Guerra Fredda. Si è fatta beffe dell’ordine internazionale pur essendone parte integrante e, in qualche modo, godendo addirittura di una posizione di forza (la ormai celebre dipendenza energetica dell’Europa). Tutto ciò è semplicemente inaccettabile. Aiutando attivamente gli ucraini, l’occidente dimostra che è pronto a difendere non tanto la sua esistenza, ma gli ideali su cui si è ricostruito il mondo post 1945. Mettendo in difficoltà l’esercito russo sul campo, si può dare una lezione esemplare a chiunque dovesse decidere in futuro che invadere uno stato sovrano sia una scelta priva di conseguenze.

Punto di forza di questa tesi: Hitler e l’appeasement. E se poi, per dirne una, toccasse alla Moldavia? Qual è la soglia di tolleranza?

Punto debole di questa tesi: si vuole lottare per dei principi a spese della pelle di qualcun’altro

Vogliamo la pace senza inviare armi. Chi stiamo difendendo di preciso? L’Ucraina non faceva parte dell’Unione Europea o della Nato. È un paese che ha oscillato tra russofilia ed europeismo ma non c’è mai stato un trend decisivo in un senso o nell’altro, nella sua relativamente breve storia di stato indipendente. Quindi perché ci stiamo prendendo la briga di esporci così tanto? Non è tanto il fatto di inviare le armi che sta alimentando la guerra, anche se certamente ne ha alterato gli equilibri in favore dell’Ucraina, quanto la convinzione che stiamo dando a quella gente di avere il nostro supporto illimitato. Con questa certezza la guerra continua perché può continuare. Se avessimo lasciato scorrere gli eventi, con un po’ di realpolitik, avremmo potuto ragionare più lucidamente e magari trovare un compromesso senza vedere intere città ucraine ridotte in macerie.

Punto di forza di questa tesi: anche se il governo di Kiev fosse stato sostituito con uno più filorusso a seguito dell’operazione militare, probabilmente grossa parte dei cittadini sarebbe stata risparmiata

Punto debole di questa tesi: e se gli ucraini avessero resistito comunque e in più da una posizione di debolezza? I morti sarebbero stati addirittura maggiori?

La cancel culture, il relativismo, l’Ucraina p. III

Prima di arrivare alla conclusione, due cose. La prima, più leggera, è che c’è qualcuno che ha riassunto in maniera molto più simpatica della mia tutta la dinamica dei talk show di cui parlavo nell’episodio II. L’altra, inquietante, è che Putin ha citato la cancel culture collegandola alla guerra in Ucraina. Vi giuro che non ricevo soldi dai russi, davvero.

Nel post scorso mi sono accorto che la mia conclusione stava già prendendo una piega relativista. Sebbene possa sembrare un concetto abbastanza abbordabile, la filosofia che c’è dietro al relativismo non è affatto banale e Treccani la riassume in maniera efficace. In sostanza ogni punto di vista è legittimo, in qualche modo, visto che definire una verità oggettiva è impossibile per l’uomo.

Il discorso fatto finora, Orsini, la propaganda, se sia giusto intervenire o meno, portava già in grembo questa riflessione. D’altronde, il fatto che le opinioni si formino a seconda del contesto dimostra quanto la realtà sia costantemente impregnata di relativismo: se avessimo detto a dicembre che sarebbe stato il caso di sostenere gli ucraini ancor prima che la Russia li attaccasse (e ce ne sarebbero stati i presupposti, perché le esercitazioni militari al confine andavano avanti dall’anno scorso), le stesse persone, politici e non, che adesso caldeggiano l’intervento avrebbero scosso gravemente la testa. Tuttavia fare del moralismo è del tutto fuori luogo. Sono cambiate le condizioni, e adesso dare le armi agli ucraini diventa una battaglia di civiltà visto che i ruoli, e non c’è nessuna attenuante che tenga, sono quelli di invaso/invasore.

Così si torna sulla scelta binaria di interveniamo/non interveniamo dove in realtà non esiste una risposta giusta o sbagliata di per sé, ma esiste una risposta più o meno adatta in base alle circostanze (c’è una guerra in Europa), al set di valori pregressi (siamo occidentali diciamo da 1500 anni e da 60 aderiamo a un pensiero chiamato atlantismo) e all’inerzia del funzionamento del nostro sistema sociale internazionale (esiste la NATO, l’ONU, una comunità internazionale di Stati che si è data delle regole).

Arrivati a questo punto è chiaro che tutto il discorso fatto finora non è tanto per parlare della guerra in sé ma per parlare di come se ne parla. Che poi, direte voi, a che serve? Con il dramma quotidiano che dura da un mese fare disamine socratiche sulla ricerca del vero sembra del tutto inopportuno. Eppure credo che sia difficile “andare in guerra” senza avere neanche una base logica da cui partire, per convincere le persone. Ed è anche difficile costruirci sopra una narrativa convincente che sia anche onesta al tempo stesso.

Faccio un esempio. Nei primi giorni di guerra mi capitò nel feed di Instagram un post di un conoscente che consisteva in un collage di alcune foto ritraenti militanti ucraini di gruppi smaccatamente neonazisti/ultranazionalisti in diversi momenti storici recenti. Nella descrizione, si accennava ad una organizzazione paramilitare di estrema destra chiamata “Battaglione Azov”. Confesso che di primo acchito mi infastidì non poco vedere quella cosa in quel momento, ma volli comunque darle seguito. Devo dire che già quando Putin, nel suo discorso di avvio delle operazioni militari, faceva ossessivamente riferimento alla “denazificazione” dell’Ucraina, pensai che una dichiarazione così assurda non poteva essere solo frutto del delirio di un pazzo. Andando a verificare un po’ di storia dell’Ucraina contemporanea queste cose, come appunto il Battaglione Azov, effettivamente tornavano. Qua torna il discorso della verità a piani di realtà variabili: il fatto che questa cosa sia vera, o meglio, che sia vero un pezzo della storia, non dovrebbe portare a conclusioni inequivocabili. Il fatto che esistano gruppi paramilitari estremisti, che si sono rafforzati in un paese che già era silenziosamente in guerra da otto anni, non implica che tutti gli ucraini siano nazisti e che, in virtù di ciò, debbano essere invasi (o sia comprensibile una loro invasione). Ma anche volendo dar seguito a questa pista, guardiamo i fatti: dalle ultime elezioni legislative, nel parlamento ucraino è rappresentato un solo partito (almeno da quello che sono riuscito a verificare) dichiaratamente ultranazionalista che è Svoboda (che prese il 2.15% dei voti e occupa 1 seggio). Anche volendo denunciare un più generale fenomeno di estremizzazione del paese (che poi alle elezioni precedenti Svoboda prese più voti, quindi per assurdo l’Ucraina stava diventando meno “nazista”?), sembra comunque inopportuno sorprendersi di qualcosa di cui è stata vittima quasi ogni democrazia nel globo (togliendo il populismo istituzionalizzato: alt-right in Usa, Casapound in Italia, Vox in Spagna ecc.). D’altronde, seguendo questa falsariga, sarebbe comico sostenere un invasione di questi paesi solo perché esistono forze minoritarie violente e potenzialmente sovversive.

Tuttavia c’è da tenere in considerazione un aspetto. Se non si volesse per forza incasellare questi fatti in conclusioni strampalate, parlarne sarebbe di beneficio per tutta l’opinione pubblica. Sarebbe saggio abbandonare la retorica del bene contro il male per far capire alle persone che la realtà è composita e che quindi stiamo aiutando un paese dove combattono anche degli estremisti, che si sono macchiati di crimini orribili anche quando la guerra non c’era. E le decisioni che prendiamo oggi potrebbero, in futuro, portare a delle conseguenze imprevedibili. Per dire, quando gli americani finanziarono i mujaheddin afghani che combattevano i sovietici negli anni ottanta, chi l’avrebbe detto che se li sarebbero ritrovati contro vent’anni dopo sotto forma di talebani. Ammettere queste cose non sminuirebbe il senso generale della battaglia, della difesa della democrazia, dei valori dell’occidente e così via, e si tenterebbe di guardare un po’ più verso l’orizzonte senza essere accecati dall’ideologia.

Questo sarebbe un approccio relativista positivo. Non affrontando il dibattito come fa Orsini, per il quale la realtà si compone di pezzi di puzzle giusti ma incastrati nel modo sbagliato, ma parlando alle persone come fossero adulti ragionevoli che possono supportare (e sopportare) una visione politica anche se sono al corrente di possibili effetti collaterali controversi. Che, mi rendo conto, è una cosa impossibile 🙂

Come parlare male della guerra p. II

C’è un personaggio salito di recente agli onori della cronaca che mi dà un ottimo aggancio per continuare il mio ragionamento. Recentemente è stato ospite di alcuni talk show un professore universitario della LUISS che ha suscitato scalpore per le sue posizioni controverse sulla guerra in Ucraina. In seguito alle critiche ricevute, Orsini si è visto annullare il suo contratto da ospite con la RAI. Come spesso accade nei dibattiti italiani, Orsini è quel classico personaggio che compare dal nulla diventando apparentemente l’unico interlocutore autorevole sull’argomento più dibattuto di quel determinato momento storico. D’altronde, pur essendo professore universitario, verrebbe da dire che non è il solo in tutta Italia ad occuparsi di relazioni internazionali, quindi sarebbe anche sano dar voce a una platea più ampia specie quando il dibattito necessita di più sfaccettature possibili.

Ancor prima di scoprire della sua dipartita, ero finito anch’io nel loop degli interventi di Orsini tramite gli spezzoni caricati su YouTube dal canale di La7. Dico loop, perché il personaggio ha davvero un qualcosa di ipnotico nella sua assurdità: Orsini è drammatico nel modo di esporre, usa immagini che fanno leva su di un’emotività di bassa lega (i Paesi di cui parla non sono invasi ma “sventrati”, fa riferimenti così ossessivi ai bambini morti duranti i conflitti che finiscono per suscitare più ribrezzo che commozione) e ha un fare da profeta che a tratti è così grottesco da risultare comico. Orsini ogni volta che è ospite di qualche talk show dice che quelli come lui non hanno spazio nel dibattito pubblico perché dicono cose troppo scomode e prima di ogni suo intervento deve fare premesse esasperanti perché altrimenti l’indomani “lo linciano”. Eppure puntualmente lo si ritrova sempre lì, la puntata seguente. In realtà il canovaccio seguito da Orsini non è molto difforme da quello canonico che molti ospiti dei talk show italiani rispettano: c’è sempre qualcuno che si intesta il ruolo di combattente del “pensiero unico”, che si scaglia contro una fantomatica censura perché quello che dice non si uniforma adeguatamente al mainstream. La cosa che colpisce di Orsini è la sua capacità di esasperare questo atteggiamento, riuscendo a trascinare in questo assurdo vortice anche gli altri ospiti, spesso facendoli sembrare più inadeguati di lui.

Il fatto che Orsini sia stato “licenziato” (ma solo dalla RAI, si intenda) fa sorgere la questione di quale sia il modo migliore di affrontare personaggi del suo calibro quando si è alle prese con dibattiti così divisivi. Da un lato, così facendo, allora la sua profezia del bavaglio si è autoavverata. Dall’altro, continuando a tollerare la sua presenza, si sarebbe continuato a dare spazio a un personaggio totalmente non informativo, per non dire dannoso. Ma il problema probabilmente è a monte. Orsini era la persona giusta da invitare in televisione? Nessuno ci ha parlato prima per capire cosa – e in che termini – pensasse? Queste sono domande retoriche, perché alla fine il fatto che ci sia la parola show in talk show la dice lunga sul tipo di dinamiche che si vogliono instaurare durante queste trasmissioni. D’altronde, le polemiche e le controversie fanno bene agli ascolti. Però fino a che punto tirare la corda? Quant’è etico continuare a battere questa strada quando si parla di cose serie come la guerra o, fino a poco fa, di una pandemia?

Il parossismo che si raggiunge in questo spezzone è da brividi

L’altro aspetto da considerare è come gli altri ospiti si trovino a gestire personaggi come Orsini. Durante il suo picco di inviti su La7, Orsini si è confrontato con giornalisti, diplomatici, ricercatori, quasi tutti di buona fama e dal solido curriculum. Eppure nessuno è sembrato realmente in grado di saperlo arginare. Nathalie Tocci, direttrice dello IAI, a un certo punto sbotta contro Orsini dicendogli che non può parlare di Ucraina visto che non c’è mai stato. Quando lui le replica che ragionando sulla stessa falsargia allora nessuno in studio potrebbe parlare della Seconda Guerra Mondiale, Tocci ribadisce che lei, in effetti, non andrebbe in TV a parlarne. Questi purtroppo sono gli effetti distorsivi di queste trasmissioni che abbassano lo standard del dibatitto a tal punto che anche personaggi ferrati nelle loro materie cadono in trappole argomentative come quelle che Orsini è bravissimo a disseminare. L’effetto è che le discussioni prendono delle pieghe assurde, della serie che pur di dimostrarmi diverso in tutto e per tutto dal mio interlocutore finisco per negargli anche l’evidenza, con il risultato di svilire la mia stessa tesi. Per fare un esempio, Orsini cita spesso l’allargamento della NATO come uno dei motivi scatenanti del conflitto, concetto ormai così pop che si può sentire anche camminando per strada. Ma attaccarlo su questo punto, negandolo a priori, è comunque sbagliato perché è oggettivamente una parte della storia. È chiaro che Orsini confonde (o fa finta di) la parte per il tutto, e per quanto millanti brillanti doti di analista sarebbe proprio questa sua incapacità di dare un contesto alle cose che sostiene il fianco migliore da attaccare.

Come parlare male della guerra p. I

Vorrei inaugurare una serie di post che avranno al centro un tema di cui è difficile non parlare adesso. Eppure domani sarà passato un mese da quando è iniziato tutto, all’improvviso diremmo, e non ne avevo scritto ancora nulla. Non che nessuno lo stesse aspettando, direte voi.

In realtà avevo avuto dei sussulti di ispirazione. Sull’emotività del momento si erano dette ed erano successe cose che mi avevano fatto venir voglia di contribuire al marasma di opinioni che immediatamente si era generato. Ma poi ho pensato che con una situazione così fluida prendere delle posizioni che magari sarebbero state smentite il giorno dopo sarebbe stato di cattivo gusto.

Per farvi un esempio, allo scoppio della guerra, stavo per scrivere che, visto? succede questo quando si decidere di eleggere come Presidente uno che lo faceva per finta in una sitcom e poi si trova a gestire delle cose che non fanno ridere per niente. E questo fenomeno, avrei scritto, non era un’esclusiva dell’Ucraina ma era ciò che successe quando, per dire, Giuseppe Conte divenne Presidente del Consiglio così, un po’ per caso, e si trovò in balia degli eventi fino a quando scoppiò una pandemia. La morale che avrei fatto è che succede questo quando si decide di non prendere più sul serio niente, nemmeno la politica.

Il fatto è che poi Zelensky se la sta cavando bene viste le circostanze. Che sia stato un personaggio discutibile per il suo percorso politico o meno (ma poi in fondo su che basi potevo dirlo, io? era un pensiero basato su quanto trovai grottesca questa storia leggendola nel 2019) ormai non importa più. Oggi l’ex comico è un Presidente che sta in trincea col suo popolo, che sembra supportarlo.

Oppure avrei voluto scrivere un commento quando, durante l’onda pacifista internazionale, ho visto foto di manifestanti che tenevano in mano cartelli con su scritto “Stop NATO” (o USA, usato come sinonimo) in un conflitto in cui, non ancora almeno, la NATO centra sì come casus belli indiretto ma, nei fatti, non centra, ripeto ancora, nulla. Allora avrei voluto fare, provocatoriamente, uno schemino del genere:

Però anche su questo discorso mi sono trattenuto, perché c’è da andarci cauti. Le relazioni tra Stati sono complesse, le alleanze militari e le influenze politiche altrettanto. La propaganda è forte da entrambe le parti e i libri di storia sono pieni di avvenimenti che letti adesso sembrano ovvi ma raccontati sul momento potevano far sbottare e dire ah, complotto!

Poi però c’è, in effetti, tutta un’altra serie di questioni che sono decisamente più sfumate. Per spiegarle si dovrebbe ricorrere alla storia, alla politica e anche alla cultura di popoli che, sebbene si trovino là vicino alla porta di casa nostra, fatichiamo ancora a comprendere. Il problema è che tutte queste cose, come facciamo di solito per trattare la complessità, le sminuzziamo in parti più piccole e con quello che ne rimane ci facciamo un puzzle che finisce per raffigurare qualcosa a noi familiare, col risultato che qualche pezzo rimane fuori.

Il fatto è che tutta questa storia dell’Ucrain ci fa sentire in qualche maniera inadeguati. Il problema è che se alcuni hanno dei dubbi su cosa fare con la guerra è perché tutti abbiamo dei problemi a darle una spiegazione convincente, che non sia un miscuglio di: senso di colpa per il passato recente dell’aggressività occidentale (e allora l’Iraq?), condanna dell’autoritarismo illiberale (e allora Navalny?) e cortocircuito ideologico (persone di sinistra che supportano la Russia perché una volta era Urss, gente di destra che elogia la Russia perché non è più Urss, ma in ogni caso per riassumere: e allora gli americani?).

Un bel ricordo di un anno peggiore

Se nel 2020 non ci si credeva poi molto che l’anno successivo sarebbe stato effettivamente migliore (oppure è stato una batosta perché ci sono state un po’ di aspettative deluse), di questo che verrà si percepisce nell’aria una volontà, una sorta di sensazione, che per forza o per amore, il 2022 dovrà essere necessariamente qualcosa di diverso – il che è strano a dirsi, viste quelle statistiche brutte che girano da una settimana. Che poi oh, l’indicatore de “l’aria che tira” è decisamente poco scientifico ma offre quel minimo di tranquillità empirica per poter scrivere una qualche tesi su questo blog. Per scaramanzia sottolineo anche che “pare” non implica “sarà così”.

A sostegno di questa mia stravagante idea vorrei citare un esempio che, in qualche modo, ha creato un precedente di ritorno agli anni a. C. (avanti Covid) che sarà difficile ignorare.

Prima una premessa: a me dispiace che ai pochi avventori di questo blog capiti, almeno un articolo ogni sette, un qualcosa in riferimento al calcio, che magari non interessa a tutti. Però 1) è l’unico sport che conosco in maniera approfondita e 2) ci trovo, magari in virtù di 1), molte analogie col mondo reale.

Questo articolo de L’Ultimo Uomo, sito che davvero racconta bellissime storie di sport, mi ha ispirato a riflettere sull’entità del fenomeno del successo sportivo, sull’impatto che ha sui ricordi delle persone e sulla percezione della realtà soprattutto in tempi come questi. Ma a dire il vero la farò molto più breve di così: quest’estate per gli italiani amanti del calcio è stata una bella estate. Ed essendo tanti gli amanti del calcio in Italia probabilmente questa gioia si è estesa anche ai non-così-tanto-amanti-del-calcio, per esposizione. Quindi Euro 2020 è stato un evento collettivo che assoceremo a ricordi positivi circoscritti ad un pezzo d’estate del 2021, che sgomiteranno tra il senso di angoscia e la frustrazione che il resto dell’anno, a fasi alterne, ci ha causato.

Se lo sport è già di per sé una sorta di metronomo che scandisce il tempo degli appassionati – per farla più prosaica: a me capita di associare le valutazioni positive o negative degli anni che ho vissuto anche a seconda dei successi o insuccessi della Juve -, quello che è successo, in Italia, quest’anno, ancora nel mezzo della pandemia assume un ulteriore contorno. È che c’è stata anche una sensazione di normalità, o meglio, di un sorta di effetto “chissenefrega”, quando ci si è abbracciati mentre l’Italia segnava o nel momento in cui si è scesi in strada a festeggiare. Non è stato molto consono a quell’immagine di ritorno graduale all’èra pre-pandemia che, con cautela, ci siamo detti di rispettare per non vanificare gli sforzi fatti questi due anni: è stato un volerla prendere per il collo, la normalità, e riscaraventarla nel mondo. È stato inopportuno e sconsiderato vista la situazione*, eppure così comprensibile nella sua spontaneità che ce n’era proprio bisogno.

In un documentario sulla storia della Juventus in DVD che guardavo da bambino mi ricordo di Dino Zoff (mi pare fosse lui) che, intervistato, a proposito del discorso che facevamo, disse qualcosa del genere:

Nella vita ci sono tante cose che possono darti gioia, ma quella esplosiva, immediata e coinvolgente che ti dà lo sport non esiste da nessuna parte

* Però non autoflagelliamoci così, d’altronde per dirne una la storia del Decameron di Boccaccio era ambientata in un contesto più o meno simile e nessuno se ne lamentò perché dava il cattivo esempio

Qual è l’età giusta per essere nostalgici?

Imbattendosi nel sottobosco dei meme che ciclicamente diventano di tendenza, ce n’è uno che potrebbe essere assurto a emblema della nostalgia che i millennial (questa categorizzazione della mia generazione mi sta venendo un po’ a noia, però dire “la mia generazione” mi sa troppo autoreferenziale; peggio ancora usare “i giovani”, visto che mi sembra egualmente grave sentirmene o non sentirmene parte) provano per il loro, recentissimo, passato.

Il meme di Gohan con gli occhiali da sole ha anche numerossime varianti con altri significati, e questa con le lenti che riflettono alcuni momenti/situazioni dei primi anni duemila (anni in cui i giovani-adulti odierni iniziavano la loro adolescenza) si trova principalmente in pagine italiane. Tuttavia, quello che fa ipotizzare che questa tendenza nostalgica superi ogni confine e nazionalità è il fatto che c’è altro materiale online che trasmette lo stesso sentimento.

Per esempio, YouTube offre intere playlist dal titolo “Bro wake up its [anno]”, probabilmente di matrice anglosassone, che sono soprattutto compilation di videogiochi dell’epoca, una nicchia che gli amanti del genere usano per scandire il tempo. Quello in alto in effetti ha per protagonista un personaggio videoludico (è il G-Man di Half Life) e l’impatto inziale è abbastanza nonsense, ma comunque si presta bene a dare un messaggio universale: un uomo, sorridente, tiene un palloncino in mano con una didascalia accanto che ci intima di svegliarci, perché è il 2006. Quello che colpisce è sia il concetto di “risveglio”, come se il presente fosse un brutto incubo, e che sia dato per scontato che il 2006, anno che è lecito immaginarsi sia stato preso a caso ma plausibilmente rientrante in un’idea di quiete che trasmettono i primi anni duemila, fosse stato un anno bello per tutti.

Se ogni generazione innegabilmente trova conforto nel passato – banalmente perché si ricorda la propria giovinezza – viene però da chiedersi se per i millennial non sia un po’ presto essere nostalgici ancor prima di aver compiuto i 30 anni. Gli elementi da considerare sono forse due: 1) le cose cambiano più velocemente rispetto al passato 2) si diventa adulti (o magari lo si accetta) più tardi.

Se per il punto 1 il discorso vien da sé (c’è stato davvero un salto d’epoca il cui spartiacque possiamo approssimativamente far coincidere col 2008 – forse l’anno in cui davvero iniziò il nuovo millennio – dopo il quale tutto è andato velocissimo. Alcuni esempi sconnessi: le Olimpiadi a Pechino del 2008, la crisi finanziaria del 2007, il boom di iscrizioni in Italia a Facebok del 2008, l’avvento degli smartphone con l’iPhone del 2007, Obama vince le elezioni nel 2008, la Juventus in Serie B nel 2006), per il punto 2 l’argomento si basa più sull’impressione: d’altronde, come si calcola l’indice di maturità di una generazione? Quindi, premesso che la metodologia usabile è discutibile, una semplice affermazione può riassumere il tutto: nessuno ci aveva detto che essere adulti avrebbe fatto così schifo.

Sarebbe interessante riflettere sull’impatto che avrà questo approccio sul futuro di questa generazione e di conseguenza sulle sorti della società. Sarà meglio per tutti non prendersi troppo sul serio e continuare a fare meme fino alla vecchiaia, o la nostalgia precoce di quando eravamo ancora più giovani renderà tutti perennemente infantili?